In una pagina memorabile de “La Certosa di Parma”, il protagonista Fabrizio del Dongo, giovane ed entusiasta soldato di Napoleone, partecipa come volontario alla celeberrima battaglia di Waterloo.
E per tutto il giorno cavalca avanti e indietro, vede le esplosioni, gli assalti, i morti, lo scempio sulle persone e le cose, arriva a unirsi al maresciallo Ney e alla sua scorta, ma dentro tutto questo trambusto non comprende nulla di quello che accade, non sa chi sta vincendo e chi sta perdendo, si muove da una parte all’altra alla ricerca del cuore dei combattimenti che però non raggiunge mai, pur trovandosi nella mischia è sempre solo e non si rende nemmeno conto di trovarsi nella battaglia che stava cercando da tante ore. Fabrizio non capisce niente, anche durante la ritirata continua a non capire, tanto da domandarsi se quella era stata una vera battaglia. Insomma, la realtà - con la sua verità - gli sfugge totalmente. Forse perché troppo complessa, forse perché quando sei immerso in una cosa finisci per non vederla, forse perché, molto più semplicemente e molto più drammaticamente, la realtà, e quindi la verità, non è conoscibile. E quando arriva all’improvviso, sei destinato a sbatterci il muso.
Ora, al di là delle pagine davvero formidabili che Stendhal ha dedicato alla sconfitta tombale di Napoleone e alla fine di un’epoca, di un mondo, che però dopo di lui non sarà più lo stesso, non sarà più “restaurabile”, il tema più profondo e ambiguo è proprio questo. Nessuno riesce a capire davvero le cose quando accadono, a vedere il nuovo che avanza e il vecchio che si ritrae. Solo a distanza, a notevole distanza, anche di decenni, meglio di secoli, le caselle tendono ad andare al loro posto e a mostrare una logica, una dinamica, una ineluttabilità interna che però sfugge del tutto ai contemporanei. Lo storico vede bene, o quasi bene, grazie alla sua lanterna prospettica, il testimone oculare è un cieco che barcolla sull’orlo di un burrone. E generalmente ci finisce dentro.
È per questo che nessuno, o quasi nessuno, trent’anni fa, ha intuito lo sbocciare prima e il dilagare poi di Berlusconi e del berlusconismo, che giusto alla fine di gennaio del 1994 ha ricevuto il suo battesimo con il famoso discorso della discesa in campo. È vero che il Cavaliere più che un personaggio di Stendhal assomiglia a uno di Balzac - e chiunque abbia una minima frequentazione dei due grandi autori sa benissimo quale abisso li divida - ma questo poco importa. Il fatto importante è quanto la sua novità, la sua novità clamorosa, la sua novità non tanto personale, e nemmeno politica, ma soprattutto culturale, antropologica, addirittura esistenziale, non sia stata compresa da nessuno. Nessuno lo ha visto arrivare. Nessuno dei politici, politici di altissimo livello quali Craxi, Andreotti o Martinazzoli, tanto per fare qualche nome, ma anche imprenditori come Agnelli o giornalisti di vaglia tipo Scalfari, Montanelli, Mieli, Bocca, Pansa, non gli scappati di casa di oggi, hanno capito cosa ci fosse dentro quella sberluccicante scatola multicolore.
Pur essendo ancora un uomo del Novecento, e forse è per questo che oggi vediamo anche lui come un pezzo di passato, perché Berlusconi non ha niente a che vedere con il digitale e con i social e quindi “è” il passato, e che del Novecento ha interpretato i ruoli più tradizionali - l’edilizia, la televisione, il calcio, la politica - ha però fatto entrare l’Italia dentro un Novecento non più ideologico, non più strutturato, non più canonico, non più ortodosso, ma invece commerciale, narcisistico, seduttore, carismatico, irresistibilmente paraculo, geniale, fanfarone, creativo, pinocchiesco, popolare. Insomma, una cosa straordinaria. Perché Berlusconi era straordinario nel senso più pieno e più etimologico del temine: fuori dall’ordinario. Nel bene e nel male, ovviamente.
E invece tutti, tutti loro, tutti noi, tutti i grandi saggi, gli scienziati, i cervelloni, i Pulitzer della politica, dell’impresa e dei giornali - che però, in quanto descrittori principi della realtà, sono i primi a non capire mai una mazza della realtà di cui sopra - appena è sbucato Silvio con la sua calza sulla telecamera, il suo imbonire le folle dal palco con il microfono in mano, il suo kit del presidente, i suoi casting da “Beautiful”, le sue spillette luccicanti, i suoi coretti da gita fuori porta, le sue barzellette sconce, le sue corna in fotografia, il suo patriarchialismo da cumenda, il suo pianobar, il suo Apicella e tutto il resto che abbiamo poi conosciuto perfettamente nei decenni a seguire, bene, di tutto questo universo germogliante noi, con rara spocchia apofatica, abbiamo arrogantemente riso, sorriso e sghignazzato. Pensa che imbecilli.
Non che avesse ragione su tutto, altroché, visto che alla fine il bilancio della sua avventura pubblica è stato strepitoso sul piano del costume ma, a essere generosi, molto deludente su quello delle riforme politiche - a partire dalla fanfaluca della rivoluzione liberale: sì, buonanotte… - però di certo quella cosa lì era una cosa vera, non solo un’accozzaglia di minorati mentali, casalinghe di Voghera, veline, tronisti, servi, ladri e rottami del pentapartito in cerca di una nuova casa e di una nuova immunità, come era stata liquidata dall’arroganza, dal conformismo e dalla cecità della vecchia classe politica e giornalistica. Certo, c’era anche quello - ma di lacchè e traffichini sono pieni tutti i partiti che vincono: a destra, a sinistra e al centro - però c’era anche e soprattutto tanto altro. Gente normale, gente qualunque, brava gente, italiani come tanti, italiani sprovveduti, sì, ma anche italiani saggi, che non si sentivano rappresentati dai ferrivecchi della sinistra occhettiana né dai partitucoli del centro. E che sentivano che Berlusconi non era solo un politico, ma un mondo. Un mondo nuovo. Un mondo ricco di promesse e di seduzioni che valeva la pena di esplorare fino in fondo. E che, infatti, giusto o sbagliato, è andata avanti a votarlo per trent’anni. Tutti cretini?
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