In una sequenza memorabile di Amarcord, Federico Fellini pennella un ritratto straordinario, spassoso e acutissimo del cialtronismo manesco che ha informato la parabola autoritaria nel nostro paese e il dominio di una cultura del sospetto dagli aspetti grotteschi, ma gravido di conseguenze.
Il padre del protagonista viene convocato nella sede del fascio perché etichettato come anarchico e lì il regista illustra tutti i tipi umani del regime: il toscano violento e bestemmiatore, il romagnolo finto cordiale ma specialista dell’olio di ricino, gli sgherri delle squadracce, l’ideologo meridionale della seconda ondata sulla sedia a rotelle e la capigliatura alla Napoleone. Una magistrale autobiografia della nazione. E la domanda chiave dell’interrogatorio è la seguente: “Come mai ti hanno sentito dire questa frase: se Mussolini va avanti così, io non lo so…”. Lui nega, ma il gerarca incalza: “Cosa intendevi dire con io non lo so? È una minaccia? Sfiducia nel fascismo? Propaganda sovversiva?” e mentre viene costretto a bere l’olio, il napoletano chiosa amareggiato: “Che scena disgustosa… È questo che ci addolora… questa ostinazione a non voler capire… ma pecché? ma pecché?”.
Applausi. Uno spezzone da cineteca, visibile su Youtube digitando “Fellini Amarcord se Mussolini va avanti così”. Un genio assoluto che gioca con quella deformazione che da un si dice detto da chissà chi e senza alcuna prova arriva alla purga salutare per il malcapitato oppositore. Niente a che fare con la devastazione psichica dei totalitarismi nazista e comunista - sullo stile della sequenza iniziale de “Le vite degli altri” o della terza stagione della mitologica serie tv “Fargo” - ma sghignazzante, infida e purulenta nel peggior costume italiota.
Beh, quella non è roba da fascisti. Non solo. Come tutti i maestri, Fellini ha colto un carattere eterno della schifezza umana che va ben oltre gli anni Trenta, testamento spirituale di un atteggiamento culturale che lega la realtà all’ideologia, all’apriorismo, alla maldicenza antropologica, lombrosiana che, a prescindere, decide chi ha torto e chi ha ragione, chi vessa e chi subisce. Non importa se un fatto sia vero o no. Importa solo che sia verosimile, che sia percepito. Nel mondo delle post verità, il discrimine non è più se i contenuti siano veri oppure no, ma se diventino virali oppure no. L’aria che tira. L’atmosfera. Il pettegolezzo. Il sentito dire. Il non poteva non sapere. Il mainstream. L’impermanenza della verità. Il venticello della calunnia. E questo è quanto.
Ne è esempio eclatante l’ultima polemica contro il ministro Boschi, accusata dall’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, di aver fatto pressioni sull’ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, per salvare l’istituto di papà, Banca Etruria. Accusa grave, oggettivamente, che Boschi ha negato, annunciando querela. De Bortoli ha confermato, Ghizzoni non commenta. Questi i fatti fino a oggi. Quindi, la parola di uno contro la parola dell’altra. Quindi, secondo la logica stringente e adamantina del Giornalista Collettivo, che rappresenta sempre il Cretino Collettivo, Boschi è colpevole. Punto. Non ci sono prove, né scritte, né audio, né video, né intercettazioni, né pizzini, né atti ufficiali, ma solo il “sicuro delle mie fonti” detto da De Bortoli, ma senza nomi e senza conferme. Però Boschi è colpevole. E il silenzio di Ghizzoni lo dimostra. Perché Ghizzoni non parla? Perché è timido? Perché ha firmato un contratto di riservatezza? Perché un praticante del Corriere gli ha fatto trovare una testa di cavallo nel letto? Perché un fattorino di Banca Etruria gli ha recapitato una testa di maiale davanti a casa? Mistero. Quindi, Boschi è colpevole.
Ora, il ministro è personaggio di dubbia competenza e di simpatia equivalente a quella di un calcio nei denti, avatar di un altro fenomeno che prometteva di cambiare l’Italia e che adesso briga come un sottosegretario doroteo. Ma anche per lei, come per chiunque altro, dovrebbe valere l’onere della prova. Della pistola fumante. Del dato schiacciante e inoppugnabile. Altrimenti sono chiacchiere. Chiacchiere e distintivo. Conformismo. E l’argomento su cui - ad ora - si basa l’accusa, cavalcata con sguaiatezza penosa da grillini, bersaniani, leghisti e tutto il resto del mondo antirenziano, è cioè che è impossibile che un giornalista autorevole come De Bortoli si inventi un’accusa senza averne le prove, fa ridere. Probabilmente le ha e le tirerà fuori al momento opportuno, dopo aver fatto friggere il ministro, ma per ora l’argomento è tartufesco. Come quello del Mussolini di Amarcord.
E che diamine, anche il direttore della Provincia è autorevole, anzi, autorevolissimo (chiedete in redazione e vedrete che conferme entusiastiche…), ma se scrivesse che il consigliere Bianchi di Lipomo ogni giovedì molesta i bambini all’uscita dall’asilo o che l’assessore Rossi di Mandello ogni venerdì ruba le offerte in sacrestia o che l’ex ministro Verdi di Chiavenna ogni sabato si traveste da Zagor e si fa frustare da due minorenni, dicendo che è sicuro delle sue fonti, lo attaccherebbero su per i piedi. Perché se vale questo, allora vale tutto, dando la stura alla sagra delle maldicenze e dei luoghi comuni. Vogliamo parlare delle infermiere che ci stanno con tutti, dei commercianti che sono tutti evasori, dei meridionali che non hanno voglia di lavorare, dei negri che hanno il furto nel sangue o, magari, degli ebrei col naso a becco che lo sanno tutti che sono i veri padroni del mondo? Siamo sicuri delle nostri fonti anche su questo, a quanto pare.
Ma che argomenti sono? Ma che società è? Che informazione è quella che prescinde dalla realtà e parte per la tangente del così dicono? E poi, diciamoci la verità, la favola del giornalistone che si erige a fustigatore del sistema di potere italiano dopo aver diretto per lunghissimi anni il tempio di tutti i poteri italiani se la beve solo un bambino. E qui, purtroppo, nessuno è più un bambino.
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