Gli uomini non valgono granché. Hanno paura di tutto. Soprattutto, hanno paura della morte. Bevono, ballano, amano, parlano, però sono pronti a camminare sulle mani, a strisciare sul ventre di fronte a quei giocattoli che si regalano ai bimbi sotto Natale: frecce, pistole, soldatini o videogame straboccanti di mostri, zombie e replicanti. L’illusione del potere.
Poi c’è anche il dolore. Ma a quello ci si abitua presto: è la dimostrazione che si è ancora vivi. E poi c’è il timore del tradimento. Tutti possono tradirti. Tutti. Solo i morti non tradiscono. Il tradimento può nascondersi sotto la sella su cui i cavalieri antichi posavano la testa pesante di sonno, dietro l’angolo che ti aspetta alla fine della via o sotto il sorriso dell’amico più caro. E poi, ancora, ci sono i desideri. E questi rappresentano la beffa più sottile e più atroce.
I desideri, come le farfalle, ci affascinano solo finché ci sfuggono. Quando finalmente li abbiamo afferrati, sono diventati delle cose morte che infilziamo con uno spillo. E allora moltiplichiamo le nostre pretese perché tutto quello che abbiamo appena raggiunto - proprio come Emma Bovary - ci ha già deluso, ma nonostante ciò non abbiamo il coraggio di ammettere la futilità di questo gioco. E non è questione di vittorie o fallimenti, perché anche il successo conosce l’amaro sapore del naufragio dei desideri. E infine, proprio all’ultimo, c’è la paura del tempo, visto che non c’è nessuno che riesca a far tesoro della lezione contenuta nell’incipit grandioso e inarrivabile e struggente dell’ “Elogio dell’ombra” di quel genio di Borges - “La vecchiaia può essere il tempo della nostra felicità. L’animale è morto o quasi. Rimangono l’uomo e la sua anima” – perché la rassegnazione e il buonsenso non fanno parte della nostra natura incomprensibile.
È questo il punto della fine dell’anno. Di ogni anno, di ogni decennio, di ogni secolo e di ogni millennio. Il punto della nostra natura scorpionesca – la rana e lo scorpione – che nei giorni ovattati che precedono il Natale cerchiamo sempre di camuffare sotto pesanti coltri di melassa. Eppure basta un attimo per farti ripiombare nella cognizione della realtà. Sai che c’è? Che quella persona lì, sì proprio quella lì che hai visto mille volte senza mai neppure tentare di conoscerla, adesso non c’è più. Oppure quell’altra, sì, proprio quella che hai sempre dato per scontata, adesso all’improvviso sta male e forse ci sarà ancora tempo ma forse no e allora devi metterti a fare i conti con tutte le occasioni perse, sprecate e vampirizzate dal cumulo di sciocchezze e schifezze e cretinaggini e meschinaggini di cui nutri le tue giornate piene di niente e con le parole non dette, gli attimi fuggiti, i gesti dimenticati, le emozioni condivise ma ormai volate via. Tanto quello lì c’è sempre stato e quindi sempre ci sarà e così si vive tutti quanti dentro un eterno rinvio, un’eterna deroga, un’eterna proproga, perché l’esigenza prioritaria è sempre quella di dare spazio alle nostre fanfaluche, alle nostre frustrazioni, ai nostri castelli in aria. E in questo modo gli altri diventano semplice cornice del tuo indaffararti nel mondo, spettatori, generalmente comparse, effetti collaterali dello spettacolo scintillante come l’orpimento di cui ritieni, coprendoti di ridicolo, di essere prim’attore. L’universo siamo noi, il resto è fuffa. Alzi la mano chi non lo ha mai colto dentro di sé.
E per una ragione molto semplice. Le cose iniziano a interessarci solo quando ci toccano di persona. È quella la nostra misura dell’esistenza. Te, te stesso, te stesso medesimo, i tuoi cari proiezione di te, i tuoi interessi, i tuoi bene al sole, i tuoi referenti dei tuoi progetti legati alla tua qualità della vita e della tua visione del mondo. Te, te e ancora te. Quanto dura lo spasmo e il terrore per il tuo ragazzo che cade in motorino? Anche tutta la vita. Quanto, invece, per i cento bimbi massacrati a freddo dai terroristi in qualche angolo remoto del mondo? Qualche minuto. Qualche ora, se va bene. O, al massimo, una notte tormentata da pensieri e malinconie. Poi, l’animale ti prende per le viscere e ti trascina altrove e così, in un batter di ciglio, la grande e indicibile tragedia umanitaria trascolora in mero sottofondo della tua parte in commedia, quella sì invece assolutamente indispensabile. Ma non c’è nessuno di indispensabile. Nessuno. I cimiteri sono pieni di gente indispensabile, questa è la verità.
E allora quali insegnamenti - al di là di quelli consolidati dalla fede e dalla tradizione - si possono trarre dalle feste natalizie? Quale giusta pedagogia? Innanzitutto, non pensare di essere altra cosa da quello che si è.
Perché l’animale di Borges si può sperare di imbrigliarlo solo se si ha piena coscienza di custodirlo e nutrirlo nell’angolo più riposto e inquietante del proprio essere. C’è sempre un Rastignac, e soprattutto un Raskolnikov, dentro gli uomini. Ed è uno spettro che non si può debellare, visto che anche il Creatore, come scriveva con ironia amarissima Isaac Singer in una pagina memorabile, ne ha preso coscienza un attimo dopo aver scatenato quel diluvio universale che avrebbe dovuto mondare la terra dell’insopportabile nequizia degli uomini. Gli erano riusciti proprio male, gli uomini, e nulla sarebbe valso a cambiarli. Carne e corruzione sarebbero sempre state la feccia della creazione, l’esatto opposto del suo splendore, della sua bontà, della sua sapienza. Il buon Dio aveva regalato ai figli di Adamo il precario uso della ragione, egoismo in abbondanza, oltre all’illusione di spazio e di tempo, ma nessun senso di finalità e giustizia. Gli uomini avrebbero continuato a strisciare sulla superficie della terra, avanti e indietro, fino a quando il patto con Dio si fosse esaurito e il loro nome cancellato per sempre dal libro della vita.
E se è così, cerchiamo di non farci trovare impreparati il giorno della resa dei conti. C’è ancora tempo per diventare migliori.
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