In una scena melodrammatica, ma acuta e commovente di “Caterina va in città”, Giancarlo Iacovoni, fallitissimo e frustratissimo insegnante di ragioneria, dopo aver visto i padri delle compagne di classe di sua figlia - un ex fascista diventato deputato rampante di An e un noto intellettuale di sinistra - fare pappa e ciccia nel cortile del liceo, capisce tutto. Le risate, gli ammiccamenti, le strusciate salottiere: lo stesso habitat, gli stessi privilegi. La stessa razza padrona. Altro che “o di qua o di là”.
E a casa, all’ora di cena, tra strepiti, piatti rotti e crisi isteriche, urla a moglie e figlia che non è vero niente di quello che ci dicono. Non esistono destra e sinistra, progressisti e conservatori, guelfi e ghibellini. Non esiste nulla. Perché quei due lì «fanno parte dello stesso partito: il partito di quelli che sanno stare al mondo. Quella è gente privilegiata e noi per loro non siamo niente». È così che funziona, per il povero professore: loro ci escludono, ci trattano come pupazzi, come giocattoli e l’illusione più grande e più fallace è credere di poter contare solo sulle proprie forze e proprio per questo immaginare di potercela fare nella vita. E invece no. Loro non avranno mai una bella casa, una soddisfazione sul lavoro, un po’ di rispetto. Mai. Aveva ragione il Marchese del Grillo: «Io so’ io, e voi non siete un cazzo!».
Ora, Paolo Virzì, regista del film girato una decina di anni fa con Sergio Castellitto e Margherita Buy, non è un grande autore, naturalmente, ma in diverse occasioni ha saputo e sa tuttora cogliere il male più profondo di una società immobile e paludosa, nella quale tutto resta ancorato a una fissità verghiana o kafkiana, addirittura, e dove è palese, tra i più avvertiti, la sensazione che il gran dibattito che ci viene infarcito ogni benedetto giorno che il buon Dio manda in terra su qualsiasi argomento sia soltanto un circo, una manfrina, una baracconata funzionale a tenere per il naso le salmerie, il parco buoi, il popolo bue prima di portarlo ottuso e remissivo al mattatoio.
È un’osservazione spontanea sgorgata in questi ultimi giorni guardando le polemiche feroci e a prima vista assatanate sui più recenti eventi politici: l’elezione del presidente della Repubblica, la rottura del patto del Nazareno, la riforma costituzionale, la crisi greca e quella libica, la legge sul lavoro e altre cose ancora. Li vedi lì, nei talk show “de sinistra”, in quelli “di regime” o nelle ospitate nei programmi del mattino, tutti infervorati e compresi nel ruolo – il politico del nuovo centrosinistra riformista e rottamatore, quello della destra sociale e movimentista, l’opinionista trinariciuto, quello manettaro e quello ultraliberista, il moderatore che lui non fa sconti a nessuno, l’economista della scuola di pensiero A che contraddice quello della scuola di pensiero B in evidente disaccordo con quello della scuola di pensiero C, e il politologo e il filosofo e il sindacalista arruffapopolo e la riserva della Repubblica e il grand commis di Stato - e tutti quanti appaiono l’uno conto l’altro armati.
E che sguardi feroci, che dicotomie incomponibili, che visioni alternative e totalizzanti dello sviluppo e della polis. E invece, basta che parta la pubblicità, che sono già lì a sghignazzare, a gigioneggiare, a darsi di gomito, a lustrare la propria parte in commedia, tutta ruotante attorno alla solita stanza dei bottoni nella quale non è prevista alcuna alternanza tra destra e sinistra, quanto invece una spaventosa continuità tra chi conta tutto e chi invece come il due di picche. Ed è una costante storica - che vi credete? - che tanti anni fa aveva fatto dire a Marco Pannella, in uno dei suoi rari momenti di lucidità, che i democristiani e i comunisti, proprio come i ladri di Pisa, litigavano di giorno e andavano a rubare insieme di notte. Non è forse questo il bello delle larghe intese?
Ed è così. Ed è sempre stato così, in questa repubblica dei datteri e delle banane. È tutta finzione scenica, tutta fuffa, tutta coreografia, resa credibile e narrativa, questo bisogna riconoscerlo, da una scenografia studiatissima. Ma chi ci crede, a questi sedicenti avversari irriducibili? Landini ha bisogno di Renzi così come lui ha bisogno di Brunetta, che a sua volta non può fare a meno della Madia, che senza Romani non ha senso, quasi quanto Salvini senza Alfano o Berlusconi senza Vendola. Cambia la quadriglia, ruotano le dame, esce una Gelmini ed entra una Boschi, si archivia una casta e ne arriva un’altra, ma lo schema resta lo stesso. La partita se la giocano sempre tra di loro. Finto governo decisionista, finta opposizione barricadera, finte rivoluzioni palingenetiche: l’unica cosa vera è la perpetua perpetuazione del perpetuo dominio dei soliti noti.
Pensateci bene. Di quanto è aumentato il nostro potere decisionale nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica e da un governo di centrosinistra a uno di centrodestra, tra la vecchia guardia dei barbogi alla Prodi e Berlusconi a quella nuova dei Renzi e dei Salvini? Di quanto la possibilità di incidere, scegliere, decidere? Di niente. Grandi tuittate, grandi facebuccate, grandi convention e simpatie giovaniliste e felpistiche, ma niente di più. Tanta scena, zero contenuti. E infatti, quando gli è cascata in testa una questione vera – il califfato dei tagliagole a un tiro di schioppo, ad esempio - il prometeico leader della cosiddetta nuova politica prima ha dato un’occhiata ai suoi ministri e appena si è accorto che la faccenda sarebbe finita nelle mani di statisti del calibro di Gentiloni, Pinotti e Alfano (tutti scelti da lui, peraltro) ha pensato bene di correre a rifugiarsi sotto le sottane di mammà come un Andreotti qualsiasi.
E noi lì, sempre pronti a berci tutto e a consegnare la solita delega in bianco al primo che passa, alla fine rassegnati e sotto sotto anche un po’ sollevati dall’essere tagliati fuori: perché forse è questo ciò che siamo, ciò che vogliamo.
[email protected]@DiegoMinonzio
© RIPRODUZIONE RISERVATA