In un pezzo formidabile scritto qualche giorno fa per il “Fatto quotidiano” in occasione del quarantennale della morte di Pasolini, Massimo Fini – che è un genio – ha fatto a pezzi la tesi complottista sulla morte del grande scrittore e regista.
Il teorema, come noto, fu lanciato da Oriana Fallaci, che a quei tempi lavorava all’“Europeo” assieme a Fini e che, a suo avviso, aveva raccolto i boatos mentre sfogliava una rivista dal parrucchiere: «Questa era la serietà delle sue fonti, come del resto è avvenuto in tanti altri casi». La giornalista non sapeva niente della vita notturna, delle frequentazioni, delle perversioni e dell’inconscia pulsione di morte di Pasolini, ma di certo non poteva accettare di non essere la protagonista anche di quella storia e quindi lanciò – «con la consueta violenza» – l’accusa del complotto fascista. Figurarsi, a quei tempi lo sport nazionale del conformismo della sinistra rivoluzionaria consisteva nell’affibbiare ogni colpa dei mali del mondo al fascismo - così come oggi a Ignazio Marino, segno dei tempi… - nascondendo la cruda, tremenda e purtroppo anche banale verità. Il poeta era rimasto vittima di un degradatissimo episodio di sessualità deviata con un minorenne. Questo, naturalmente, non toglieva nulla alla sua genialità, al suo talento e alla sua vena visionaria. Tantissimi artisti convivono con torbide zone d’ombra e, anzi, da queste traggono la loro insostituibile linfa creativa – che sarebbe stato Proust senza le perversioni sessuali e omosessuali? E Céline senza il nichilismo e l’antisemitismo? E Dostoevskij senza il demone del gioco? – ma questo fatto era inaccettabile allora, e lo è anche adesso, per uno spirito dei tempi segnato dal fariseismo globale, dal giornalismo collettivo, dal vaselinesco regime dei moralisti e dei benpensanti.
E infatti, quarant’anni fa, la tesi della Fallaci – anche lei poi colpita dal contrappasso della maledetta che diventa immaginetta – venne presa per buona da tutta la ghenga dei maestri di pensiero del rivoluzionarismo gauchista né con lo Stato né con le Bierre che utilizzava lo spettro dei fascisti, ormai già del tutto scomparsi, così come quello del complottismo, dello stragismo, della Democrazia Cristiana intesa come macchina criminale da processare nelle piazze – “Io so, ma non ho le prove” è la vera genesi delle tante mostruosità giustizialiste degli ultimi vent’anni – per offrire un clamoroso alibi al proprio velleitarismo politico.
Il potere non ha ucciso Pasolini. Non lo ha fatto allora e non ne avrebbe bisogno neanche adesso perché – come ricordato da Pietrangelo Buttafuoco sul “Foglio” – lo ha già ridotto a un santino. Una t-shirt. Un logo. Un Jovanotti coupé. Una madonna pellegrina da ostentare nelle fiere, nelle piazze e nei salotti dei reduci. Una parata del Palio di Siena a uso e consumo dei sessantenni oggi quieti borghesi, ma da giovani rivoluzionari massimalisti, che possono così ricordare i bei tempi andati e illudersi di aver avuto sempre ragione. E per i quali il maggio francese ha rappresentato quell’evento esistenziale dal quale non sono mai riusciti a distaccarsi con il loro Cile, la loro Grecia, il loro Vietnam, gli indiani metropolitani, i tazebao, le occupazioni studentesche, il caso Sofri, gli scontri di piazza contro i poliziotti che, come scrisse Pasolini, erano poveri figli di poveri del sud e che quindi non dovevano essere combattuti, ma che anzi avrebbero dovuto diventare i migliori alleati nell’assalto al palazzo del potere per instaurare finalmente la democrazia del popolo. Non un’intuizione particolarmente originale, in verità.
Ecco, il Pasolini vittima del grande complotto autoritario – e non il maledetto devastato dal suo perverso male di vivere - è funzionale ancora oggi alla sua riduzione a icona boldriniana, doppiomoralista, filistea che nei giorni scorsi, non a caso, ha inondato i giornali con una santificazione falsa e inopportuna, un’imbalsamatura che rappresenta la sua vera morte, il vero massacro del suo corpo e della sua opera mille volte più grave del macello perpetrato all’Idroscalo di Ostia da Pino Pelosi.
Eppure si sarebbero potute dire tante cose sulla grandezza ma anche sui limiti delle sue liriche, della sua narrativa e del suo cinema, su come forse larga parte della sua arte sia talmente piantata dentro il Novecento, quel Novecento ideologico, quel Novecento lì, da apparire in parte datata, di certo molto poco spendibile oggi per chi ha meno di trent’anni. E di quanto la povertà, l’asciuttezza, il realismo del suo cinema sia stato pregio ma anche difetto e tante altre cose ancora. E domandarsi, magari, in quanti abbiano veramente eletto i suoi libri o visto i suoi film. E quanti lo facciano oggi. Pochi, probabilmente, più o meno come Moravia, altro sarcofago di quegli anni lontanissimi. E che forse – come ricorda con perfidia Vittorio Feltri – alla fine la sua fama sia legata più che altro a due articoli di giornale: quello sugli scontri di Valle Giulia e quello sulle lucciole e la Dc criminale. Forse un po’ poco per la gloria delle patrie lettere.
E invece niente. Fanfare. Tromboni. Parate. Monumenti. Benedizioni. Fervorini. Anestesia. Regime. E appena è saltato fuori un regista – anche se piuttosto scarso – come Gabriele Muccino ad avanzare con grande garbo qualche dubbio sui suoi film, apriti cielo. È partito un massacro mediatico e digitale a ennesima dimostrazione di quanto il web possa rappresentare la vera fogna globale dell’umanità e, soprattutto, di quanto il pensiero unico collettivo abbia devastato la nostra visione critica del mondo.
Di certo a Pasolini questa fine avrebbe fatto senso e di certo si sarebbe ribellato a un destino da totem del potere, perché la sua arte – grande, complessa, irrisolta – e la sua improntitudine esistenziale confermano una piccolissima ma inscalfibile convinzione: l’unica vera battaglia che va combattuta oggi è quella contro il politicamente corretto. Ci vorrebbe un Pasolini.
[email protected]@DiegoMinonzio
© RIPRODUZIONE RISERVATA