E così uno viene a Como e trova il «degrado della cultura». Non uno qualunque, si intende. Un regista cinematografico di quelli, tra l’altro, che non girano “cinepanettoni” ma film - oggi non sono poi molti - in grado di raccontare l’attualità sondandola nel profondo: Paolo Virzì.
L’autore che con “Caterina va in città” ci ha raccontato splendori e miserie della Roma vicina al terzo millennio e in “Tutta la vita davanti” l’impossibile prigionia del precariato, si appresta ad approfondire ne “Il capitale umano” - in uscita giovedì - la «schiavitù del denaro» che affligge gli italiani. Un amore per la ricchezza fine a se stessa, ottenuta attraverso fasulle alchimie finanziarie e dunque incapace di produrre benefici per il Paese, di generare lavoro, benessere, progresso sociale. Una ricchezza, oltretutto, doppiamente velenosa perché, distaccata com’è dai valori, non pensa neppure per sbaglio alla cultura, ovvero a quel patrimonio di conoscenze, regole, sentimenti e simboli che costituisce il collante della società civile. Laddove questa ricchezza vampiresca si riproduce è giocoforza, nella lettura di Virzì, che la cultura affondi nel degrado. E questo perverso meccanismo sarebbe più evidente che altrove a Como: città ricca e, così sostiene il regista, culturalmente degradata.
Lo ha detto a “Repubblica”, Virzì, il che è come dirlo a una robusta élite di italiani che già pensano al Nord come a una Foresta Nera popolata di barbari i quali, alla parola cultura, reagiscono urlando e contorcendosi alla maniera degli orchetti nel “Signore degli Anelli”.
Se la osserviamo al microscopio, la dichiarazione di Virzì - «Como è una città ricchissima che esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina» - è viziata da un doppio equivoco. Il primo, il più evidente, è che il degradatissimo Politeama non è l’unico teatro cittadino. Poche decine di metri più in là sorge infatti il Sociale, teatro che giusto lo scorso anno ha celebrato due secoli di vita, spettacoli e cultura. Certo, se immaginiamo Como senza il Sociale e la fotografiamo con quel relitto di teatro, il Politeama, nel bel mezzo centro cittadino, allora sì che avremmo l’immagine di una città culturalmente degradata: ma sarebbe un’immagine imprecisa, se non addirittura falsa, e raccontare da una premessa sbagliata non è mai buona cosa, neppure per un regista abile e intelligente come Virzì.
Il secondo equivoco è invece legato a una questione di metodo. Con tutta probabilità, Virzì ha trovato a Como il «degrado della cultura» perché è partito convinto di trovarcelo. Questo è precisamente il difetto di molta parte dell’aristocrazia intellettuale italiana: giornalisti, registi, scrittori e artisti non vanno in cerca della realtà quale essa è ma solo di conferme a convinzioni già formate. Perché volgere lo sguardo verso un teatro bello, funzionante, attivo e radicato quando, concentrandosi sulle rovine di una sala in disuso, si ha pronta conferma delle proprie teorie? Virzì ha cercato un simbolo e un simbolo ha trovato: ignorando ogni altra cosa ha respinto informazioni che lo avrebbero costretto a rivedere una realtà precostituita in favore di una scena sociale ben più ricca di sfumature, dettagli e paradossi. Questa parziale cecità del pensiero, questa rigidità nella lettura del presente è forse la ragione per cui il cinema, tra le altre forme di cultura, non riesce più - neppure con registi bravissimi come Virzì - a raccontare l’Italia con l’accuratezza, il candore, la rabbia e la poesia di un tempo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA