Cliniche e democrazia
Miti svizzeri sbiaditi

A proposito di giustizia, libertà di informazione e cliniche svizzere.

Dal Ticino arriva una storia che meriterebbe di essere notificata ai colleghi di “Reporters sans frontières”, quelli che tutti gli anni compilano la classifica dei Paesi in cui la stampa è più o meno libera e che nel 2016 collocavano l’Italia al 77esimo posto, tra Moldavia e Benin. In Svizzera (settimo Paese più “libero”, incalzato dalla Svezia) succede che quattro giornalisti di un domenicale molto apprezzato in Ticino, il Caffè - un settimanale gratuito in lingua italiana che fa ottimo giornalismo di inchiesta - si ritrovino davanti a un giudice per avere scritto di un intervento chirurgico riuscito male, e non perché nella ricostruzione della vicenda qualcuno di loro abbia commesso errori, anche uno soltanto; piuttosto, e più banalmente, perché ne hanno scritto, ed evidentemente non avrebbero dovuto farlo.

Con una prima pagina praticamente tutta bianca - che per un giornale è quasi come listarsi a lutto - il Caffé titolava la scorsa settimana «A processo per “troppa” verità», che è poi quello che da giorni va ripetendo il suo direttore Lillo Alaimo: «Ci danno dei bugiardi - dice - ma non ci dicono quali bugie abbiamo detto».

La clinica che ha denunciato il settimanale si chiama “Sant’Anna” e per molto tempo, da questa parte del confine, ha incarnato il prototipo della clinica svizzera per eccellenza, quella che piaceva alle famiglie “bene” e alle grandi dinastie industriali del Belpaese, se è vero, come è vero, che per esempio, nemmeno troppo tempo fa, qui partorirono una dopo l’altra tutte le figlie di Berlusconi. Nel luglio del 2014 accadde che, per un tragico scambio di persona, un chirurgo eseguì una mastectomia completa - asportazione del seno destro e del seno sinistro - su una paziente di 66 anni che in realtà attendeva di subire un intervento per la rimozione di un piccolo nodulo.

Di questo si occupò e di questo scrisse Il Caffè, ponendosi - come dice ancora il suo direttore - una serie di interrogativi legittimi: «Ci siamo domandati per esempio come fosse possibile che nel secondo decennio degli anni Duemila l’errore di un singolo soggetto potesse determinare un tale “incidente”, quali fossero e quali siano le procedure di sicurezza per l’identificazione del paziente nel corso di una sessione operatoria e quali fossero, soprattutto, quelle in vigore in una clinica che rappresentava e rappresenta un punto di riferimento per tutto il Paese… Da noi la sanità costa 72 miliardi di franchi all’anno, e ogni cittadino è obbligato a versare, mensilmente, una somma variabile tra i 200 e i 900 franchi di assicurazione malattia». Ai colleghi de Il Caffè il procuratore ticinese contesta due reati, la diffamazione e la concorrenza sleale, benché la seconda sia conseguenza della prima e benché, in altre parole, non possa esistere la concorrenza sleale (l’avere avvantaggiato altre cliniche mettendo in cattiva luce la Sant’Anna) se non esiste diffamazione, se cioè non vi fu imprecisione nella ricostruzione degli eventi.

In nessun documento o interrogatorio i giornalisti del domenicale si sono visti contestare inesattezze nella ricostruzione. E allora? E allora non resta che aspettare il processo, sul quale proveremo a tenere aggiornati anche i lettori de La Provincia.

Intanto, chi lo volesse, può aggiungere il suo nome in calce all’appello lanciato dal settimanale, che in pochi giorni ha già raccolto oltre un migliaio di firme. Il link e le istruzioni sono sull’homepage del sito: www.caffe.ch.

Chiudiamo, più per orgoglio patrio che per dovere di cronaca,con un auspicio a questo punto un po’ più fondato: e cioè che i colleghi di “Reporters sans frontières” si decidano a rivedere le loro classifiche.

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