La Resistenza. La Resistenza. La Resistenza. Quando, alle cinque della sera, sugli schermi televisivi del Belpaese è apparso un tale che riassumeva in senso plastico, lombrosiano tutti i luoghi comuni sul sindacalista pulcioso, sudato, moralista e logorroico e ha iniziato a pontificare con il ditino alzato sul caso Colosseo, che rappresenta un intollerabile attacco ai diritti fondamentali della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza conquistati dalla Resistenza - lo ha detto per davvero: la Resistenza! -, abbiamo capito che anche stavolta nulla potrà fermare l’eterno ritorno del Circo Barnum nella nostra repubblica dello zafferano.
Siamo sempre noi. Sempre gli stessi. Noi. Noi stessi medesimi. Pittoreschi personaggi da avanspettacolo, con i nostri sindacalisti da operetta e i loro distacchi, i loro libretti rossi, i loro bilanci misteriosi, le loro adunate oceaniche, il loro vocabolario da anni Cinquanta, il loro Pantheon culturale, la loro retorica da reduci del Sessantottismo, del gruppettarismo, del terzomondismo, del tazebaismo, del cheguevarismo, dell’eccebombismo e giù le mani dai sacrosanti diritti del proletariato umiliato e offeso (sui doveri, mai un parola, naturalmente) e l’attacco al cuore dello Stato e le contraddizioni del turbocapitalismo e le barricate contro il populismo razzista e qualunquista. E tutti in televisione (nei campi di pomodori del Salento o nei call center da romanzo di Dickens mai nessuno, naturalmente) a sproloquiare, a ululare, a comiziare sull’insostenibilità degli insostenibilmente insostenibili carichi di lavoro e sull’organico organicamente insufficiente e sul sacrosanto diritto alla pausa caffè e sugli scioperi dei treni casualmente sempre di venerdì e sugli insegnanti deportati dal governo neofascista. Deportati. Qui c’è gente che insegna ai nostri figli e si permette di qualificare come deportazione un’opportunità di lavoro a posto fisso lontano da casa. Questi insegnano e non conoscono nemmeno il significato della parola deportazione e il suo peso tragico nella storia del Novecento. Insegnano e non conoscono il significato delle parole. Ma come parlano? Come parlano? E come si permettono?
Ma sarebbe troppo facile e pure troppo comodo riversare tutto il guano su di loro, anche se lo meritano in larga parte. Perché la pochade ha altri attori protagonisti. Primi fra tutti, quei cervelloni del governo, che a un certo punto della loro esistenza fanno finta di accorgersi che la struttura burocratico-sindacale che spadroneggia sui beni culturali - e non solo - è uno scandalo nazionale. E allora si scoprono liberisti e interventisti e decisionisti e dichiarano e tuittano e facebuccano e si indignano e decretano con urgenza (pagare un anno di straordinari arretrati ai custodi invece no, naturalmente) , perché si è passato veramente il segno e mai più una cosa del genere e adesso basta far ridere il mondo intero. Roba grossa. Da far impallidire la Thatcher con i minatori. Ma è solo un gioco delle parti, nel quale tutti i governi della prima, della seconda e pure della terza repubblica hanno sguazzato dal dopoguerra a oggi. Il disastro del Colosseo, di Pompei e di tanti altri meravigliosi beni museali italiani non è un accidente, ma il prodotto di una cultura cialtrona, clientelare e immobilista che tiene assieme tutti quanti - politica, burocrazia, sindacato - e si basa sull’assioma del non fare, del non investire, del non decidere e del distribuire lavoro sottoqualificato e sottopagato, a uso e consumo degli amici degli amici e nel nome di una fantomatica pace sociale.
Ma non è ancora finita. Perché alla fine, per chiudere in bellezza, arriviamo noi del rutilante mondo dei media, con i nostri grandi maestri di pensiero e le nostre facili indignazioni a stigmatizzare, a denunciare, a moraleggiare su questo paese, caro lei, che proprio non se ne può più, quando forse sarebbe meglio starsene zitti, fare qualche inchiesta vera e basata su dati certi in più e qualche paginata sui tweet del Balotelli malato d’amore in meno, e magari ricordarsi di quanti milioni pubblici a pioggia abbiamo beneficiato per tappare i buchi delle nostre inefficienze, che in certi ambientini à la page sono lì in metà di mille a fare il lavoro di ottanta, perché uno è impegnato a temperare le matite, un altro a cancellare con la gomma, un altro ancora a inzuppare la penna d’oca nel calamaio e il più sveglio del bigoncio, generalmente quello che fa carriera, a dare la linea sull’universomondo alla macchinetta del caffè. La bulgarizzazione di interi comparti della nostra macchina pubblica è figlia di tanti padri, senza che mai nessuno abbia veramente provato a scardinarla, perché in fondo non interessa a nessuno. Tutto si tiene, nel paese dei balocchi della casta trasversale. Ogni tanto scoppia un foruncolo, spurga le sue schifezze, che cascano in testa al cittadino medio - che tanto non conta un piffero -, si fa un bel cataplasma di retorica e sdegno e poi tutti a nanna, in attesa della prossima crisi passeggera. E tanti saluti al merito, alle competenze e ai veri diritti dei cittadini.
Ma c’è almeno una certezza, per fortuna. Sarà bello ricevere già oggi al giornale da parte dei tanti sindacalisti in gamba del nostro territorio - che sono molto meglio di quelli della palude romana - la protesta e la dissociazione da certi colleghi che così male li rappresentano. Siamo sicuri che faranno sapere ai nostri lettori quanto siano diversi e quanto non abbiano niente a che vedere con certe macchiette doppiomoraliste e, soprattutto, che non si fanno ricattare dalla logica massonica del branco, secondo la quale ci si difende a prescindere perché la colpa è sempre di qualcun altro. Arriveranno mail a decine e a centinaia, ne siamo certi, e noi riserveremo intere pagine della Provincia alle testimonianze dei sindacalisti fuori dal coro (dei politici e dei burocrati non ci interessa niente). Che magnifica prova di civiltà: non vediamo l’ora che sia domani.
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