Colpiti alle spalle
da chi protesta

Ma i mondiali non sono l’anno prossimo in Brasile? Che ci fanno con la bandiera dell’Italia? Qualcuno, intrappolato in coda, ieri l’ha buttata sul ridere con serafica rassegnazione.

Altri, al secondo giorno di via crucis, francamente ne avevano già le tasche piene.

La protesta dei forconi, che sta mettendo a ferro e fuoco l’Italia, ha colpito anche la placida dormiente. La tranquilla Como, ormai da tempo, si è accorta suo malgrado di non essere più un’isola felice. La crisi in questi anni l’ha colpita nel profondo, lasciando per strada uno stuolo di aziende chiuse e di disoccupati. La burocrazia, le tasse e i politici hanno fatto il resto. E così sono arrivati anche per noi “i giorni della collera”. Altrove è successo di peggio, con scene di guerriglia urbana, bombe carta, binari occupati, blocchi autostradali: qui la protesta si è limitata per ora a un’azione scientifica di rallentamento del traffico al nodo cruciale di Camerlata, con chilometri di coda sulle direttrici d’ingresso in città, dalla Varesina alla statale dei Giovi.

Il primo giorno la protesta (non annunciata) ha colto tutti di sorpresa: molti si sono chiesti le ragioni delle code, dei volantini, degli striscioni e dei tricolori. E facevano fatica a trovare un anello di congiunzione che potesse unire autotrasportatori, studenti, disoccupati, militanti di Forza Nuova e agricoltori.

In realtà il “Coordinamento 9 dicembre” è formato da diverse associazioni di categoria: Associazione nazionale trasportatori, i “forconi”, Movimento autonomo trasportatori, Azione rurale Veneto, Cobas latte, Liberi imprenditori federalisti europei.

In molti si sono chiesti (e continuano a chiedersi): ma cosa vogliono questi qui?

Lo recita il volantino che stanno distribuendo da due giorni agli automobilisti in coda: dicono «basta al far west della globalizzazione, che ha sterminato il lavoro degli italiani», sono «contro questo modello di Europa», chiedono di «riprenderci la sovranità popolare e monetaria». Per questo invocano le dimissione del governo dei «nominati» e un referendum per uscire dall’euro.

Il movimento dei “forconi” è stato fondato in Sicilia nel 2012 da Mariano Ferro, un imprenditore agricolo di Avola, e già l’anno scorso aveva messo in atto una protesta che bloccò il trasporto delle merci.

Il problema, visto dal capo opposto dell’Italia, non è se si tratti di «vana collera» o di valide ragioni. Il nodo è un altro: ognuno è libero di protestare e di manifestare il suo pensiero, ci mancherebbe.

Ma se questa libertà diventa arbitrio e va a calpestare la libertà altrui non ci siamo. Il primo giorno passi, il secondo anche. Ma adesso basta.

Da due giorni (e oggi sarà il terzo) ci sono migliaia di comaschi imbottigliati in coda, che pagano sulla loro pelle il prezzo della protesta arrivando tardi al lavoro, a scuola, a casa. E’ giusto? Chi dobbiamo ringraziare per queste ore in coda? Se l’obiettivo dei forconi è l’Europa (o il governo, oppure i politici), chi protesta vada a far valere le sue ragioni sotto il Parlamento europeo, a Palazzo Chigi o davanti a Montecitorio. Se no finisce che a pagare il prezzo dei “giorni della collera” sono i soliti noti, che non sono molto diversi da quelli che protestano: lavoratori, studenti, disoccupati. Gente che fatica tanto quanto chi ha messo in scena la protesta dei forconi. O magari di più.

Con il rischio, per altro, che la situazione (per ora assolutamente pacifica, almeno a Como) sfugga di mano e degeneri. La prova di forza è riuscita, il botto mediatico c’è stato, gli interlocutori hanno raddrizzato le antenne. Adesso è tempo di mettere da parte i forconi e di avviare il confronto.

Un altro giorno di blocco a Camerlata e il blitz annunciato per domani alla sede di Equitalia (con prevedibili ingorghi in tangenziale) cosa possono aggiungere? A cosa possono servire? Solo a trasformare in torto marcio le ragioni di partenza e la simpatia iniziale di molti in insofferenza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA