l’ombra dei campanili forma immagini che a prima vista appaiono lineari, geometriche e semplici. Eppure la zona di grigio lascia sempre un dubbio sull’architettura colpita dal sole. Prendiamo le Camere di commercio e consideriamo Lecco e Como. La bordata di luce che arriva dal governo rende folgorante la realtà che devono cambiare. Le ombre però lasciano tanti dubbi sul come e sul dove.
A Lecco si guarda verso la Brianza e a Como si getta uno sguardo a Varese e uno all’altro ramo del lago. Sotto i campanili si fanno ragionamenti e calcoli. Il rischio è che a furia di guardare alle nuove geografie non si colga che il pericolo reale è un altro. Le due città e le loro classi dirigenti si stanno confrontando da tempo sulla direzione da prendere. Come avviene nelle società libere e che esprimono molteplici interessi, scontano al loro interno la difficoltà di fare la sintesi tra posizioni contrastanti, a volte contrapposte. La ricchezza di opinioni e di valori purtroppo anziché portare in alto il dibattito talvolta ha finito per paralizzare tutto. Emblematico il caso della Camera di commercio di Lecco con il braccio di ferro risolto solo dai giudici.
Eppure occorre oggi un salto di qualità. È necessario uno sguardo nuovo e più lungo sul futuro dei nostri territori. Lo impone la riforma di questi enti voluta dal governo Renzi, approvata dal Parlamento con la legge Madia e ratificata l’altra sera dal Consiglio dei ministri con il decreto legislativo che dà tempo 180 giorni per attuare la trasformazione delle Camere di commercio.
Si può discutere se la riforma fosse necessaria e soprattutto se dovesse riguardare indistintamente tutti gli enti colpendo sia quelli virtuosi sia quelli male gestiti. Discussione accademica a questo punto. Como e Lecco devono decidere cosa fare e soprattutto come e dove vogliono andare.
La riunificazione delle Camere di commercio può essere un processo subito e mal digerito dalle due comunità. Oppure può essere il punto di partenza per un ridisegno dei ruoli, delle competenze e delle rispettive ambizioni in una società lombarda, che all’interno della realtà italiana, gioca una partita europea e internazionale.
Perché la riunificazione è inevitabile? Perché la legge stabilisce che gli enti passano da 105 a 60 e che requisito minimo è avere almeno 75mila imprese iscritte. Como (circa 60mila) e Lecco (circa 33mila) possono soddisfare questo requisito soltanto mettendosi insieme. L’alternativa è accasarsi altrove. Dove? Una parte di Lecco continua a guardare a Monza che però si è già accorpata a Milano. Lecco, dunque, finirebbe con Milano? Sarebbe vantaggioso? Per alcuni versi sì, per altri no. Soprattutto sarebbe periferia della periferia e in termini di rappresentanza l’economia lecchese e il mondo delle sue imprese diventerebbero davvero marginali se non ininfluenti. Per capirlo basta considerare che la Camera di commercio di Milano-Monza e eventualmente Lecco avrebbe solo 22 consiglieri e sarebbe tanto se ci fosse posto per uno o due lecchesi.
Lo stesso ragionamento vale per Como che con alcune sue componenti auspica l’unione con Varese. Se così fosse si perderebbe la grande opportunità di riunire la provincia del Lario facendone modello per le ipotizzate aree vaste.
Il confronto sulle aggregazioni delle Camera di commercio non deve far dimenticare che il rischio vero che corrono i sistemi economici dei nostri territori non è quello di avere meno enti o minori introiti da gestire. Il pericolo è che svaniscano patrimonio importanti accumulati in decenni: Como ha un patrimonio netto di oltre 30 milioni e Lecco di oltre 20. Attenti, quindi. Sono soldi delle imprese e a loro andranno destinate. Una linea che si può portare avanti ed affermare parlando con una sola voce.
Ecco perché Como e Lecco per una volta hanno lo stesso interesse. Tornare insieme.
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