La vittoria netta del centrodestra in provincia di Como si porta dietro una serie di novità e qualche domanda, a cominciare dalle possibili conseguenze del ribaltamento nei rapporti di forza tra le due anime principali della coalizione. La poderosa avanzata della Lega, passata in cinque anni dal 16 al 32% (o meglio da cinquantamila a centomila elettori) fa da contrappeso alla flessione di Forza Italia, scesa dal 23% circa del 2013 al 15 scarso di ieri. Difficile stabilire quanto, in queste nuove proporzioni, abbia inciso da sola la tendenza nazionale al rinnovamento della leadership e a politiche più aggressive, quelle che Salvini definisce «orgogliosamente populiste». Di certo, nel confronto interno alla destra, sul lago di Como, al partito di Berlusconi non ha giovato l’assenza, praticamente totale, di candidati al Parlamento espressione delle forze del territorio. Nella pattuglia spedita a Montecitorio, Forza Italia manda nomi conosciuti al grande pubblico come Ravetto, Ronzulli, Galliani, ma la Lega fa il pieno con militanti e dirigenti di qui come Molteni, Zoffili, Rivolta, Locatelli.
A proposito del vicesindaco di Como, da ieri virtualmente parlamentare della Repubblica italiana, bisognerà valutare le ripercussioni del voto delle politiche sull’esecutivo cittadino. In discussione non c’è il doppio incarico che la neo-deputata ha precisato da subito di voler mantenere, quanto i nuovi equilibri di una maggioranza che già da qualche mese ha offerto chiari segnali di nervosismo, con scontri anche aperti su temi importanti come la gestione degli acquedotti e dell’accoglienza. Il rafforzamento della Lega, che secondo le voci più critiche del centrodestra condiziona fin troppo le scelte del sindaco Mario Landriscina, può acuire gli attriti con le altre componenti, dagli azzurri al gruppo di Fratelli d’Italia, rinvigorito dal nuovo potere negoziale conseguente all’elezione in quel di Lecco del suo leader, Alessio Butti.
Lo stesso Landriscina, d’altro canto, aveva lasciato intendere di non gradire affatto le continue tensioni e il “fuoco amico” di questi mesi. Il dopo-elezioni, dunque, potrebbe portare al pettine nodi scoperti ormai da tempo e provocare equilibri diversi.
L’analisi del voto a destra deve tener conto dell’effetto di polarizzazione delle due principali anime in competizione: Lega e Forza Italia hanno lasciato poco spazio agli alleati, a cominciare proprio da Fratelli d’Italia: vero che il partito della Meloni, sul Lario, in cinque anni ha raddoppiato i voti, ma passare dal 2,5 al 5 quando il Carroccio passa la boa del 30 dà la misura dei rapporti di forza.
D’altro canto il Lario si dimostra poco incline a premiare i partiti minori o di opinione. Lo rivela anche il risultato di Liberi e Uguali, sotto il tre per cento e inferiore addirittura a quello di Sel del 2013, o quello della Lista Bonino, sotto il cinque in città e sotto il tre in provincia.
Tra chi non ha vinto, o quantomeno non ha sfondato in questa tornata elettorale sul Lario, va annoverato in qualche modo anche il Movimento dei Cinquestelle: 18% cinque anni fa, 19 ieri. In provincia i pentastellati faticano a intercettare i voti degli scontenti in libera uscita dai grandi partiti tradizionali. Chi è scontento dello status quo, a Como e in tutto il Nord, preferisce votare Salvini piuttosto che Di Maio. Resta il fatto che i grillini confermano le simpatie di quasi un quinto dell’elettorato comasco e sorpassano il Pd come seconda forza della Provincia. In più, a suggellare una presenza che si consolida, questa volta mandano a Roma un parlamentare, il comasco Giovanni Currò, che fra l’altro, con i suoi 31 anni, risulta il più giovane dei 14 colleghi eletti qui.
C’è qualcosa di positivo da registrare nel quadro della disfatta elettorale del Pd di Renzi. È la sostanziale tenuta del partito a Como città, dove, con il 24% dei voti, risulta essere addirittura il primo partito in assoluto, davanti anche alla Lega. Due punti in meno di cinque anni fa ma comunque un dato ampiamente superiore alla media nazionale, e maturato nonostante le difficoltà incontrate sul finire della giunta di Mario Lucini dopo i l caso delle paratie. Segno innanzitutto che l’elettorato del capoluogo è diverso da quello della provincia e che in città esiste ancora una fascia di elettori disposti a non cedere a suggestioni facili in tema di Europa, economia, accoglienza.
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