Se il mitologico Cronos esistesse e decidesse di iscriversi a un partito, sceglierebbe il Pd. Magari anche quello di Como. Nessun altra forza politica, infatti, è così predisposta a divorare i propri figli, specie quelli migliori e vincenti, come quella guidata da Matteo Renzi.
Lo stesso ex sindaco di Firenze ,che pure sta cercando di evitare che il partito sia travolto dall’onda di piena montante del grillismo, cammina sulle punte dei coltelli impugnati da molti suoi compagni (o come si chiamano ora). Il Pd (o come si appellava all’epoca: Pds e/o Ds) riuscì per due volte a fare un sol boccone di Prodi, l’unico candidato in grado di sconfiggere in altrettante occasioni Silvio Berlusconi. Certo, la stilettata decisiva venne inferta da altri, ma i mandanti risiedevano nello stesso partito che aveva proiettato il Professore a palazzo Chigi. Con questo pedigree si fa fatica a non pensare che la stessa cosa stia accadendo in altro palazzo comasco: quello intitolato alla famiglia Cernezzi. Tra il Pd, principale partito di maggioranza, e il sindaco Mario Lucini è sceso il gelo. Un ghiaccio reso bollente dalle dichiarazioni di Franco Fragolino, presidente dimissionario del Consiglio comunale ed eletto con il partito di Renzi, che, nell’uscire di scena non si è certo preoccupato di chiudere la porta senza fare rumore. A Fragolino è seguito il gruppo di mormoranti all’interno e all’esterno del gruppo consiliare, una pattuglia che peraltro aveva già preceduto l’ex presidente delle Acli. Insomma, negli ingranaggi dell’amministrazione comunale, che parevano perfettamente oliati all’avvio, sembra essere entrata l’acqua. Certo, anche il sindaco ci mette del suo. L’accusa di essere un testone poco propenso ad ascoltare i consigli altrui più o meno interessati, non è priva di fondamento. Ma Lucini è anche il candidato che ha consentito al Pd di ottenere la storica vittoria nelle comunali del 2012 e di approdare al governo di una città che ha sempre guardato perlopiù a destra. Prima del successo di Lucini, anzi, prima della fronda in maggioranza, alzi la mano chi aveva contezza dell’esistenza del Pd comasco o conoscenza delle figure che stavano al vertice del partito. Certo, il primo cittadino sconta le difficoltà di un bilancio sempre più magro, della matassa d’acciaio del cantiere sul lungolago, della forzata rinuncia a un assessore da novanta come Giulia Pusterla nonché della permanenza di altri neppure da quarantacinque (nell’elenco non è compreso Luigi Cavadini, tecnico di grande qualità ma poco politico). Di tutto avrebbe perciò bisogno Lucini fuorché del fuoco amico. E poi lui alla fine deve rispondere ai cittadini che lo hanno scelto due volte con le primarie e con il voto amministrativo e non ai partiti che pretendono di imporgli linea e le scelte. Tant’è che se quest’ultimi decidessero di togliergli la fiducia non potrebbero sostituirlo senza mandare a casa l’intero Consiglio comunale e restituire, appunto, la parola agli elettori. Il sindaco forse avrebbe anche la tentazione di fare la voce grossa se non temesse di ampliare i focolai d’incendio soffiandoci sopra per tentare di spegnerlo. Del resto che il Pd e i suoi avi siano piuttosto riottosi nei confronti dei rappresentanti scelti direttamente da l “volgo disperso”, lo dimostra ancora la vicenda di Prodi, sgambettato da D’Alema e Marini che volevano edificare un Ulivo dei partiti contrapposto a quello dei cittadini bramato dal Professore. Curioso che i Piddini comaschi, quasi tutti renziani (qualcuno magari di complemento) continuino ad ispirarsi al leader Massimo.
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