Erano belli i tempi in cui si rivoltavano i cappotti, c’erano le mezze stagioni (peraltro forse sulla via del ritorno) e i bambini entravano a scuola con i cestini colorati che contenevano prelibatezze confezionate da amorevoli mani di mamme e nonne. Usa ancora da qualche parte questo andazzo gozzaniano? Chissà. A Como da tempo no.
Le mense scolastiche di qualunque ordine e grado sono sempre state più una croce che una delizia per i piccoli avventori. Si sa che i bambini, salvo eccezioni di precoci buongustai con robusti appetiti, tendono a non leccarsi i baffi di fronte a ciò che trovano nel piatto. E le tabelle dell’Asl, peraltro sacrosante e protese nello sforzo, a volte vano, di tutelare, anche in prospettiva, la salute dei piccoli e magari correggere abitudini alimentari famigliari sbagliate (in buonissima fede), non aiutano,
Per questo forse, quello del punto unico di cottura al posto dei diciassette attuali e il viaggio che attende le pietanze per raggiungere i vari istituti di Como, potrebbe non essere un problema così angosciante. Non lo sarebbe se non ci fossero di mezzo i figli. Ogni volta che accade qualcosa che rischia di penalizzarli è normale che scattino le ambasce di mamma e papà e le conseguenti proteste.
Dietro la scelta del punto unico di cottura ci sono però alcune questioni. La prima e principale è lo stato di salute delle casse comunali, sempre più precario dopo che il flusso di denaro che dalla capitale giungeva in periferia è stato invertito. La seconda e tutt’altro che secondaria è la volontà dell’amministrazione di non ritoccare le tariffe del servizio di refezione scolastica che però è sempre meno sostenibile per i bilanci di palazzo Cernezzi, a causa delle ragioni di cui sopra, ma anche per la crisi che ha messo alcune famiglie in condizioni di non poter garantire il regolare pagamento delle rette.
Alla fine palazzo Cernezzi si è trovato di fronte a due strade: quella intrapresa della razionalizzazione radicale dei punti di cottura e quella scartata, anzi considerata una sorta di tabù dalla coalizione di centrosinistra che guida il Comune: esternalizzare il servizio, affidarlo cioè ai privati come hanno già fatto una serie di strutture pubbliche e non, ospedali in testa. Si tratta di un tabù culturale che la giunta Lucini però ha già sconfitto, non senza fatica ,per le farmacie comunali. I componenti dell’esecutivo,in larga parte molto sensibili nei confronti del sociale, sembrano non voler neppure prendere in considerazione l’idea per le mense.
Posizione nobile rispettabile che però al momento non contribuisce a dipanare la matassa del malcontento dei genitori e della necessità di garantire che le vivande possano viaggiare dalle pentole e dai tegami ai piatti nel minor tempo possibile.
Ci sarebbe anche una terza via. Quella proposta da Anna Veronelli, oggi consigliere d’opposizione ma in passato assessore all’Istruzione, che mette in tavola il poker di punti mensa: da diciassette a quattro. Un compromesso accettabile ma soprattutto risolutivo per tutti i problem? Chissà. Ma allora forse non sarebbe il caso di ragionare sul superamento di quel tabù? Sull’affidamento della gestione ai privati sotto lo stretto controllo pubblico specie in relazione alla qualità dei pasti serviti. Una sinistra comasca che se non si vuole definire renziana poiché il ragazzo è alquanto divisivo anche dalle nostru parte, potrebbe quantomeno rifarsi al new labour di Blair, davvero non può prendere in considerazione questa ipotesi? La scelta è prima di tutto politica. Sarebbe anche l’occasione per dimostrare che c’è qualcuno che fa politica davvero. E potrebbe costituire un buon atout anche per le prossime elezioni comunali: un po’ di terreno sottratto alla destra che prepara la rivincita.
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