Domani l’intera zona attorno allo stadio Sinigaglia, con il suo cotè di passeggiata a lago e 250 posti auto, tornerà ad essere “off limits”. Si perdoni l’orribile e abusato anglicismo, ma “off limits” è il termine coniato dalle forze armate americane per indicare il divieto di accesso in un’area, e descrive con efficacia quella che è stata e sarà la “militarizzazione” della zona lago, con reti metalliche erette per centinaia di metri, sbarramenti in cemento e divieti di accesso, alle auto, ai ciclisti e ai pedoni. Scenario che potrebbe susseguirsi sino a fine campionato, per un totale di dieci ore moltiplicate per diciassette giornate, la maggior parte domeniche.
Nulla di nuovo, si dirà, perché ormai dal 2009, e in maniera più massiccia due anni fa con il Como in serie B, ogni domenica casalinga al Sinigaglia vede rinnovarsi questa liturgia laica giustificata da motivi di sicurezza. A dire il vero il tifoso medio continua a chiedersi come mai a Como si debbano prendere misure da guerra civile quando in altre città con situazioni simili o peggiori (Chiavari e Vercelli, giusto per dirne due) le città non vengano blindate affatto, ma questo è un altro discorso. Intanto il tempo passa e, come ben sa chi ha a cuore le sorti del Como, in due anni si è passati di umiliazione in umiliazione dalla serie B alla D. Eppure, che arrivino ultrà da Brescia o Livorno oppure tifosi da Castellazzo Bormida o Inveruno (i pericolosissimi hooligans di Arconate li abbiamo già sfangati giocando a Seregno, per fortuna) le misure di sicurezza all’esterno del Sinigaglia sono rimaste le stesse, identiche, inamovibili. Misure pensate per dividere tifoserie inesistenti.
Ora, uno stadio nel centro città è anacronistico, ma finché qualcuno non ne pagherà e costruirà uno nuovo, questo c’è e questo dobbiamo tenerci. Ed è indiscutibile che per motivi di sicurezza non si possano lasciare aperte al traffico le strade mentre il pubblico arriva o defluisce, anche se si parla di centinaia di persone e non decine di migliaia. Ma da qui a blindare completamente un quartiere della città per dieci ore ogni domenica, francamente ne passa. Vada per gli incontri a rischio, che poi quest’anno tale è soltanto quello col Varese, ma per le altre partite il blocco pare sproporzionato se non grottesco.
Dal suo pragmatismo il comasco medio chiede subito: chi paga? Risposta: in primo luogo paga il Calcio Como, ma non solo. Quanto? L’amministratore delegato Roberto Felleca ha quantificato al nostro giornale l’onere in 52.000 euro l’anno. Ma a guardar bene paga pure il contribuente: la Como Servizi Urbani, società pubblica che gestisce i parcheggi, non incasserà nulla da 250 posti auto per circa 170 ore. Il prodotto è 42.500; in euro probabilmente fa qualcosa in meno perché in alcune aree vigono tariffe agevolate, ma è comunque un mancato incasso a quattro zeri. La “militarizzazione” dello stadio penalizza poi i residenti in generale, ancor più quelli che pagano un abbonamento annuale per occupare gli spazi blu; se la tariffa è annuale, il parcheggio è garantito per 348 giorni, con la beffa di dover spostare l’auto e parcheggiare a pagamento.
C’è poi, come dire, un “costo sociale”: al di là della passeggiata interrotta la mattina del dì di festa, e vallo a spiegare ai turisti, i comaschi sanno bene cosa significhi togliere 250 posti auto in una domenica di shopping natalizio o in una bella domenica primaverile. Lo sanno i comaschi come i milanesi, i brianzoli, i laghèe, gli svizzeri, i turisti e anche i sassi. Eppure, si è deciso di riblindare l’area stadio. E , stavolta, il Comune, sempre sotto accusa, non c’entra. Certo, siamo in tempi difficili e non è da invidiare chi si occupa di pubblica sicurezza, spesso costretto a misure inedite e impopolari. Ma rivedere queste disposizioni, attenuarle o limitarle ai casi davvero a rischio non sembra una forzatura, piuttosto una concessione al buon senso.
P.S. Forza Como.
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