Qualcuno potrebbe anche, e a ragion veduta, dire: “ma piantatela lì”. Perché la recente storia amministrativa e non solo della città di Como si è a volte incrociata con quella di alcuni alberi. In principio fu l’Ippocastano, quello che è stato addirittura immortalato battezzando con il suo nome il parcheggio vicino al Dadone. Pensare che la pianta d’alto fusto (davvero un fusto di pianta se si pensa a quante ne ha brillantemente superate) doveva essere spazzata via da un colpo di sega da parte di un furibondo sindaco democristiano, il buon Angelo Meda, che alla fine a denti stretti dovette cedere di fronte alla volontà popolare. Chiaro che oltre alle sorti della pianta, che nel frattempo ha visto passare altri cinque primi cittadini, compreso quello in carica, senza che nessuno di loro sia mai stato sfiorato dal pensiero di torcere una sola foglia al caro albero, ci sono state di mezzo quelle della politica.
Del resto, la vicenda dell’ippocastano, risalente agli anni ’90 quelli che precedettero il frastuono di manette della stagione di Tangentopoli, può anche essere emblematica di un precoce cambio dei tempi sulla scena politica comasca con la seconda Repubblica che cominciava a fare capolino mentre la prima segnava il passo. Il sindaco che succedette a Meda, Felice Bernasconi, l’ultimo esponente Dc conclamato alla guida di palazzo Cernezzi (tra i successori non mancano tracce del Dna della Balena Bianca), imbarcò nella sua giunta il primo assessore verde della storia di Como, espressione di coloro cioè che si erano opposti alla condanna a morte decretata per l’ippocastano. Una sorta di polizza per il piantone.
Peraltro l’albero che fa ombra vicino al complesso edilizio sorto dalle ceneri dell’ex Pessina è l’unico ad aver avuto partita vinto contro il “potere”. Forse perché la parabola ambientalista partita in coincidenza con il tramonto della prima Repubblica e sull’onda delle paure scaturite dal disastro di Chernobyl del 1986 (per chi non c’era, una devastante esplosione in una centrale nucleare dell’allora Unione Sovietica sparse una nube tossica e minacciosa su quasi tutta Europa) ha poi virato in discesa. O meglio tutti i partiti sono diventati ambientalisti (magari qualcuno “alle vongole” come certi pseudo intellettuali), togliendo ai verdi l’esclusiva e alle loro battaglie, sensate o meno che fossero, un po’ mordente. Fu così che in piena seconda Repubblica con la bandiera del centrodestra del sindaco Stefano Bruni che garriva su palazzo Cernezzi (i disastri Ticosa e paratie erano davvenì), al cedro di piazza Verdi non riuscì l’impresa del cugino ippocastano. A far calare la mannaia con un blitz, fu l’assessore Fulvio Caradonna, incurante del grido di dolore che arrivava da una parte dei cittadini . A onor della verità va detto che forse, una volta ultimato il restyling dell’area davanti al teatro Sociale, qualcuno cambiò idea perché si accorse che quell’albero, pur senza averne colpa, c’entrava come i cavoli a merenda con il contesto.
Chissà se accadrà la stessa cosa a chi, fino a ieri, pensava di incatenarsi al glicine di piazza Volta, vittima di un governo, questa volta di centrosinistra, a dimostrazione che in politica poco si tiene, e a lavori ultimati dirà che in fondo il sacrificio dell’albero non è stato vano. Nella prima Repubblica (declinante però) ha vinto la pianta, nella seconda il potere, nella terza o come si chiama adesso, forse è finita in pareggio perché per un glicine tagliato,un altro è stato in parte risparmiato. Da questi parti non è più tempo di decisionismo (ammesso che lo sia mai stato). Insomma, è proprio il caso di piantarla.
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