Sono molti, e non a torto, a ironizzare sul Pd che continua a guardare al proprio rissoso ombelico credendolo spropositato. Eppure il pur brancaleonico percorso intrapreso dal partito per una nuova leadership e, soprattutto, una rinnovata linea politica è tutt’altro che secondario per l’evoluzione della politica italiana.
Certo, c’è sempre di mezzo Renzi, elemento di distrazione di massa che catalizza su di sé tutto e il suo contrario. Per carità, il personaggio si conosce. Dopo il rovescio sul referendum è diventato come quegli stereotipi dei toscani, alla Massimo Ceccherini che il primo quarto d’ora li trovi pure simpatici e divertenti, poi non li reggi più. Lo spicchio di popolarità di Matteo è durato anche meno del suo governo. Eppure, anche ai suoi innumerevoli e crescenti detrattori, si potrebbe porre questa domanda: “Dopo di lui cosa c’è stato?”. La risposta è qui: (cioè nulla). E allora sarebbe il caso di superare il tormentone del “senza te o con te” che oltretutto ha ballato in una sola Sanremo e concentrarsi su futuro del Pd. In gioco infatti c’è soprattutto il posizionamento di un partito che, figlio di due culture complementari e antagoniste, il solidarismo cattolico e il riformismo di sinistra, ha finito come aveva vaticinato il grandissimo vecchio Emanuele Macaluso, con il portare queste al capolinea senza riuscire neppure a elaborare una sintesi efficace, se non, ma a grandissime linee proprio durante la famigerata gestione del bulletto fiorentino.
Adesso, però, forse non è chiarissimo che il Matteo diventato secondo nella hit parade della politica italiana, sta combattendo una battaglia che come sua non sempre felice abitudine ha finito per intestarsi, nel tentativo di condizionare il posizionamento del Pd. Da qui deriva tutto, la sconfessione di Minniti di cui Renzi aveva colto l’inadeguatezza per la leadership prima ancora che, in maniera volontaria, la rivelasse lo stesso ex titolare del Viminale nell’annuncio del ritiro dalla corsa. Si sa che non è automatico che un buon anche ottimo ministro non sia automaticamente anche un capo politico di vaglia (vedi alla voce Bersani).
È quasi lapalissiano che in caso di vittoria di Zingaretti il Nazareno stringerà un abbraccio con i 5Stelle nei quali Di Maio appare sempre di più un re travicello in attesa di essere disarcionato dai populmovimentisti Di Battista e Fico ansiosi di buttarsi a sinistra come gran parte dei militanti. Ne verrebbe fuori una compagnia di Capitan Fracassa anche più magmatica di quell’Unione che portò al disastro del secondo governo Prodi.
Speculare nella Lega è la voglia di destra, specie se non subordinata alla voce padronale dell’ex Cavalier Berlusconi, ma guidata dal polso del capitano Salvini. Tutti questi smottamenti del sistema politico, specie quello in casa pentastellata, dipendono però da ciò che succederà in casa Pd. Se Renzi, grazie a Martina e ai candidati di disturbo comparsi per la corsa alla primarie, riuscirà a non far vincere o a ridimensionare la vittoria di Zingaretti potrebbe andare in scena un altro film. Perché è vero che Macron ormai è da buttare, ma il suo afflato anti sovranista in supplenza del tracollo delle forze tradizionali del socialismo europeo, potrebbe avere ancora un perché. L’operazione travalica i confini italiani e l’unico, forse assieme a Calenda, che potrebbe condurla è proprio l’esecrato Matteo. Alla fine è anche il caso di non dimenticare che siamo in un sistema elettorale proporzionale. Lo stesso in cui, nel passato, Bettino Craxi, che con il suo Psi non aveva mai raggiunto il 15%, faceva ballare tutti.
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