Si racconta che Maria e Giuseppe deposero il loro figlio appena nato «in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc, 2, 7). La questione del posto o meglio del luogo è sempre essenziale quando si tratta dell’uomo; si tratta della posizione che l’uomo assume nei confronti di ciò che incontra lungo la sua vita, ma anche dello spazio ch’egli decide di dare a ciò che accade.
Essenzialità della topologia umana; il modo d’essere dell’uomo è per sua natura una questione topologica: che pozione assumiamo nei confronti di questo o di quell’evento? Da quale punto di vista osserviamo tutto ciò che circonda? Da un certo punto di vista gli alberghi sono sempre occupati; al tempo della nascita di Gesù, ad esempio, c’era il censimento ordinato da Cesare Augusto, oggi ci sono gli infiniti impegni che ci affliggono, i ritmi insostenibili della nostra quotidianità, gli insistenti doveri ai quali sembra non si possa fare altro che obbedire.
Lo sappiamo, è bene non ingannare e non ingannarci: abbiamo sempre mille ragioni per sostenere, a volte addirittura con ottimi motivi, che «non c’è posto» in quell’albergo che è la nostra vita. Ma riconosciuto questo bisogna anche affermare che vi sono delle esperienze che riescono ad asciugare ogni spazio, o anche che riescono ad occupare ogni spazio, con una forza tale da rendere quasi impossibile il formarsi di un luogo all’interno del quale sostare per prendere con calma una qualche decisione. Pensiamo alla fame; chi ha fame non riesce a pensare ad altro; la fame divora il soggetto ponendosi al centro della sua vita come quel tutto che non lascia spazio a nient’altro. A tale riguardo l’affermazione secondo la quale non «si vede più dalla fame» deve essere apprezzata nel suo senso più profondo: la fame, infatti, non fa vedere proprio perché non fa vedere altro, perché nella fame - questa è la condanna che opprime l’affamato - non si smette mai di vedere, anche se ciò che si vede, o prevede, è sempre e soltanto ciò che ad essa può/potrebbe dare soddisfazione. Pensiamo al dolore; chi soffre, soprattutto per il male dell’altro, per l’ingiustizia o la sofferenza subita dall’amato e/o dall’innocente, è come atterrito, si dice giustamente «devastato» da un sentimento che arriva a contaminare, distruggendolo, tutto ciò che lo circonda. Pensiamo soprattutto alla paura. Si racconta che, dopo aver dato ascolto al serpente, Adamo si sia nascosto: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn, 3, 10). La paura asciuga, immobilizza, condanna alla solitudine, genera il sospetto, porta a vedere nemici ovunque, rende aggressivi e paranoici, aggressivi perché paranoici.
Queste esperienze appartengono alla vita di ogni uomo; ogni uomo, prima o poi s’imbatte in esse e si trova a dover prendere una posizione nei loro confronti. Di fronte a questi eventi ognuno di noi avrebbe voglia di dire «non c’è posto per loro nell’albergo». Anche questo, purtroppo, è oggetto di un sapere che non teme smentite. Ma riconosciuta questa «banale» verità, non si può fare a meno di ribadire: guai a coloro che provocano la fame dell’altro, il dolore dell’altro, la paura dell’altro. Guai a coloro che spingono gli uomini a rinchiudersi in se stessi, a coloro che riescono a trasformarli in «animali del sospetto», a quegli impuri che riescono a contaminare gli occhi degli uomini rendendoli così al tempo stesso ciechi al bene e sensibili solo al male. Nessuno potrà mai eliminare dal mondo il male, ma guai a coloro che, per una qualsiasi ragione, s’intrattengono con esso permettendo così ch’esso si diffonda nel mondo.
Si è parlato di «strage di Berlino», ma anche di «strage di Natale». Il rischio è proprio questo: non tanto che la strage sia avvenuta in quel luogo che è «Berlino», ma che «Berlino» stessa risulti distrutta come luogo, come città di incontro tra uomini di culture e fedi diversi. Ma ancora più grave, così almeno a me sembra, è il seguente rischio: non tanto che la strage sia avvenuta durante il «Natale», ma che il «Natale» stesso sia distrutto come luogo, come quel luogo per eccellenza all’interno del quale gli uomini possono prendere posizione senza occuparla, possono porsi, per l’appunto come uomini, senta tuttavia imporsi. In verità è anche questo un aspetto della «buona novella» che prende forma e carne a Natale («buona novella» che si rivolge agli «uomini di buona volontà», «buona novella» che resta così sospesa, sorprendentemente, alla risposta di questa «buona volontà»): è possibile abitare la terra senza conquistarla, è possibile vivere in alleanza con Dio e con gli altri uomini senza trasformare il nome di Dio in grido per sterminare gli uomini.
I giornali tedeschi hanno subito sottolineato che gli altri «mercatini di Natale» hanno deciso di restare aperti proprio per non cedere alla paura e per non darla vinta ai terroristi. Questa è senza dubbio una buona notizia. Tuttavia è bene non trasformare il «mercato» nell’unico «luogo aperto» del Natale. Il Natale non è la festa di Babbo Natale e in verità neppure dei doni. In un bel articolo apparso ieri su Avvenire a firma Maurizio Cecchetti si è affermato che è fondamentale che Natale non si riduca a “potlatch”, vale a dire in una sorta di pratica compulsiva in cui ognuno fa a gare con gli altri nel fare doni sempre più esclusivi e abbondanti: «Le nostre società si fondano sul consumo, che è anch’esso una forma di potlatch: più consumo più sono presente sulla scena sociale, più stabilisco il mio rango su quella scala (più dilapido il mio denaro, anche quello che non ho, per avere tutto questo). La festa del regalo che si celebra nel Natale è anch’essa un potlatch: regalo e ricevo un regalo».
Contro la paura e il male delle stragi è bene, dunque, che i «mercatini di Natale» restino aperti, ma ancora più importante è che resti aperto il Natale, che si resti aperti al Natale, che il Natale stesso sia compreso e vissuto, da tutti «gli uomini di buona volontà», anche se non cristiani, come quell’apertura irriducibile che rinvia ad un’alleanza indimenticabile. È fondamentale che il nostro albergo resti aperto e che in esso ci sia sempre un po’ di posto libero.
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