Editoriali / Como città
Giovedì 04 Dicembre 2014
Crimini “micro”
non per chi li subisce
Crimini “Micro”
non per le vittime
Attenzione ai neologismi in materia di giustizia. Di solito affabulano per nascondere un controsenso o una fregatura. Per arginare il malcontento crescente fra cittadini sempre meno sicuri dei loro beni, vent’anni fa un questore inventò l’affascinante paradosso lessicale della «microcriminalità».
Sarebbe bastato scriverlo con il trattino in mezzo per mostrare il cortocircuito logico che nascondeva, come fanno i tappeti di certe case con la polvere. Hanno rubato la borsetta alla nonna? Peccato signora, ci sono questi fastidiosi microcrimini, praticamente punture di zanzara rispetto ai massimi sistemi dell’ordinamento penale repubblicano, che invece godono di ottima salute.
A chiamare le cose per nome, per esempio reati commessi da delinquenti - piccoli o grandi era in realtà questione relativa e di nessuna pertinenza - magari a qualcuno sarebbe sovvenuto che i furti vanno perseguiti e i ladri ricercati. Invece, informata che si trattava di banale microcrimine, fatta la coda in questura e l’inutile denuncia, la derubata tornava a casa senza portafogli, documenti, bancomat, tessera sanitaria, carta sconto, cartà fedeltà, ciocca di capelli della nipote prematuramente scomparsa e quasi si vergognava di aver fatto perdere tempo al nutrito esercito di operatori del diritto che, in via del tutto teorica, secondo il codice penale doveva occuparsi del suo caso.
Le espressioni nuove ma vacue si logorano con il passare del tempo e passano di moda come le canzoni. Ragion per cui l’esercito di cui sopra ha presto coniato un’altra brillante figura retorica, quella del «reato bagatellare». Il succo del discorso è sempre lo stesso, quello in base al quale nessuno ha voglia di occuparsi dei vicini di casa prepotenti che ingiuriano, minacciano o fanno l’occhio nero a chi parcheggia dove non piace a loro. Nessuno tranne l’avvocato, si intende, che però di solito oltre alla voglia ha anche l’interesse.
Il sospetto andreottiano è che lo zampino degli avvocati (pare che da soli rappresentino oltre la metà del corpo parlamentare italiano) abbia vergato in tutto o in parte il decreto legislativo che prevede la “non punibilità di condotte – cioè reati - di particolare tenuità”. Sospetto alimentato dal fatto che, archiviazione o non archiviazione di furti di borsette e occhi neri, il lavoro e le parcelle degli avvocati sono salvi. Il magistrato che secondo la nuova legge ravvede un fatto tanto tenue da non meritare il processo deve infatti chiedere i pareri non vincolanti dell’indagato e della parte lesa (costretti in pratica a nominare legali) prima di fare istanza al giudice che poi dovrà provvedere. Già queste scarne informazioni inducono a pensare che se la ratio della legge è quella di snellire le procedure, il suo fallimento è assicurato. I procedimenti vanno comunque imbastiti, le notifiche e le possibili opposizioni si moltiplicano. Il margine di discrezionalità per il momento attribuito al giudice è destinato a essere cancellato nel corso del tempo da pronunce di organi superiori che censureranno decisioni diverse su casi identici e ridurranno progressivamente i margini di manovra fino all’automatismo dell’archiviazione obbligatoria. Nel frattempo, il danneggiato a cui è stato negato il processo penale, se proprio insiste a chiedere giustizia, può sempre imbarcarsi in una causa civile. Dunque dove sia lo snellimento è difficile da capire.
Si intravede invece la nascita di un altro neologismo umoristico: come faccia a essere tenue una condotta illecita punita con cinque anni di reclusione è cosa più grande delle capacità di comprensione del ceto medio non tribunalizzato. Per sciogliere i dubbi residui bisogna però attendere che il decreto legislativo approvato l’altra sera dal Governo passi in Parlamento per i pareri, sia firmato da Napolitano e sia pubblicato. Finora, infatti, l’hanno visto in pochi. Nel frattempo, sembra di capire che la destra populista stia sbagliando mira. Non ci saranno colpi di spugna sui furti, per esempio, considerato che tanto il borseggio in centro che il furto di formaggi al supermarket o le incursioni in casa sono condotte aggravate escluse dalle archiviazioni. E così lo stalking in quanto condotta ripetuta o l’omicidio colposo, che provoca un danno tutt’altro che esiguo, come pare richiedere la legge perché sia dichiarata l’irrilevanza dei fatti. Vero invece che ancora una volta le truffe rischiano di essere sottovalutate e non perseguite, così come le appropriazioni indebite.
Afferma un esperto che invece di definire tenue un illecito punito con cinque anni di galera meglio sarebbe stato effettuare una ricognizione preventiva dei reati previsti dal codice penale, che ha ottant’anni e li dimostra tutti nella valutazione delle pene. Cose ritenute gravi negli Anni ’30 ora fanno sorridere e viceversa.
A meno di pensare che il tetto dei cinque anni serva alla depenalizzazione occulta di reati societari come il falso in bilancio, l’impedito controllo alla formazione fittizia del capitale, l’aggiotaggio, l’ostacolo alla vigilanza pubblica. Oppure illeciti fallimentari come la bancarotta semplice e il ricorso abusivo al credito. O reati tributari come la dichiarazione infedele, l’omessa dichiarazione, la sottrazione fraudolenta o l’omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali. O ancora reati contro la pubblica amministrazione come l’abuso d’ufficio e il peculato d’uso. Ma è meglio fermarsi prima di quanto faceva Andreotti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA