Malgrado i dubbi del premier sulla possibile sospensione dell’Imu e dell’aumento dell’Iva, il ministro Saccomanni seguita a sostenere che ci sarebbero segnali di ripresa della nostra economia per cui, con il solito “cauto ottimismo”, si potrebbe ipotizzare a breve un’inversione del ciclo che preluderebbe alla fine della recessione. La verità è che esiste strutturalmente una parte del nostro sistema economico che è sempre stata in grado di supplire ai limiti della domanda interna attraverso una spiccata capacità di penetrazione in mercati più solidi del nostro. Si chiama competitività questa prerogativa, di tante nostre piccole e medie aziende, di esportare, fare profitti e investire in assoluta solitudine, senza il sostegno del sistema bancario e dello Stato. Il ministro, pertanto, non dice nulla di nuovo perchè si tratta delle stesse aziende che hanno macinato profitti anche durante le fasi più drammatiche di questa interminabile recessione. Il problema, pertanto, è quello di fare uscire dalla crisi le “altre” aziende, quelle che hanno legato le proprie sorti all’andamento del mercato interno. Su questo, il ministro Saccomanni preferisce glissare, com’è ovvio.
Occorre ammettere che la politica monetaria, da sola, non può bastare per ridare fiato all’economia. Risulta, ormai, innegabile che non ha alcun senso la creazione della moneta unica se la diversa fiscalità degli Stati finisce per alimentare diffuse situazioni di concorrenza tra soggetti che, di contro, dovrebbero essere partner. Questa è una delle cause per cui l’Europa stenta a decollare non solo come soggetto politico ma, soprattutto, come spirito comunitario, anima e “koinè” culturale dei popoli dell’Unione.
Non va dimenticato, altresì, che, a differenza delle aziende straniere, le aziende italiane hanno dovuto affrontare per decenni un altro tipo di concorrenza, quella dello Stato.
Il debito pubblico costituisce, infatti, la causa principale della scarsa capacità di attrazione del risparmio delle famiglie da parte delle nostre imprese. Siamo famosi nel mondo per essere il “Bot people”, il popolo che ama acquistare i titoli di stato e rifuggire dalla Borsa che, non a caso, è una delle più sottocapitalizzate del mondo occidentale. Le nostre aziende hanno dovuto sopportare per decenni quello che, tecnicamente, viene definito “crowding out” (“spiazzamento”), vale a dire l’impossibilità per i soggetti privati di concorrere con i tassi di interesse offerti dallo Stato. Sono queste le cause principali della grave crisi che continua ad attanagliare gran parte delle imprese italiane. L’Europa, pertanto, ha un senso se è in grado di disegnare uno scenario che abbia come obiettivo prioritario il superamento della concorrenza fiscale esistente nell’eurozona nonché della concorrenza del debito pubblico degli Stati. Risulta, pertanto, riduttivo e fuorviante imputare la mancata competitività delle nostre imprese all’impossibilità di utilizzare la cara, vecchia, svalutazione. Debito pubblico e fisco sono le due grandi questioni a cui finora l’Europa non ha saputo fornire una risposta Anche il governo Letta appare elusivo sul tema. Non basta il “cauto ottimismo” del ministro Saccomanni per convincere gli italiani che la ripresa è vicina. Ci vuole ben altro.
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