Raramente arte, o meglio cultura, e politica vanno d’accordo. Scopo primario della politica è raggiungere il consenso, non è così per l’arte. Picasso non avrebbe mai dipinto Les Demoiselles d’Avignon, in quello stile altamente incomprensibile e allo stesso tempo formidabilmente originale, se avesse cercato il consenso. Lo avrebbe fatto con il linguaggio della gente comune, forse con i colori e le forme suadenti degli impressionisti. E Michelangelo avrebbe indulto verso le linee più rassicuranti dell’Accademia, piuttosto che creare le forme sublimi, ma decisamente carnali nei suoi affreschi sacri, che certo non erano approvati dalla curia più conservatrice. L’artista non pensa al consenso quando crea, pensa esclusivamente all’espressione di se stesso, delle proprie idee, politiche, sociali, o semplicemente speculative. E se piace e fa divertire è solo una conseguenza secondaria della sua poetica. Le mostre, di conseguenza, non possono che essere l’espressione di questa creatività, organizzata in forma leggibile, didattica, storica o critica dal curatore o dallo storico dell’arte. Le mostre d’arte non cercano e non dovrebbero cercare il consenso, ma fornire chiavi di lettura, suggerire percorsi ideali di quanto gli artisti hanno creato in passato o stanno creando nel presente.
Che cosa sono allora le mostre - grandi eventi di cui si sta parlando tanto nei salotti e sulla cronaca comasca? Credo profondamente che siano qualcos’altro. Qualcosa di più vicino all’evento mediatico che alla mostra d’arte. Un contenitore, che probabilmente potrebbe “mostrare” qualsiasi altra cosa (auto, moto, oggetti curiosi, artigianato, cibo, perché no), ma non necessariamente opere d’arte. In fondo ciò che conta non è il contenuto, ma la confezione: che sia ben fatta, ben proposta e che possa, finalmente, accogliere il consenso. E’ quello che ci ha fatto capire anche Sgarbi, l’autorevole mentore che da qualche anno ci pregiamo di vantare nelle sue visite serali, quando non notturne, alle mostre comasche. Da storico dell’arte, che ha sposato la politica, Sgarbi non può dare un giudizio solo ed esclusivamente storico artistico delle mostre comasche: di quelle di Gaddi ha lodato l’organizzazione, la genialità e la promozione, di quella di Cavadini ha apprezzato i contenuti, le opere, ma non la forma. Del resto, come potrebbe formulare un giudizio puramente da storico dell’arte, lui che a Milano sta cercando di portare i capolavori dell’arte italiana – che siano Botticelli, Arcimboldo o i bronzi di Riace non importa – con il solo scopo di creare una vetrina sull’italianità per gli stranieri che invaderanno Milano durante l’Expo? Un’operazione la sua contro la quale Longhi avrebbe tuonato facendo risuonare le sale degli Uffizi. Un’operazione molto simile a quella, già ampiamente criticata dal grande storico dell’arte Francis Haskell, voluta nel 1930 dal regime fascista, che per compiacere la politica inglese, aveva trasportato pericolosamente a Londra alcuni grandi capolavori dell’arte italiana (dalla Venere, appunto, di Botticelli, al David di Donatello).
Ovviamente, è possibile costruire mostre che non siano semplici spostamenti di opere più o meno significative di nomi d’effetto (prelevate da musei chiusi o dai loro depositi), mostre che non generino nei visitatori il semplice compiacimento per aver visto capolavori, che non forniscano solo argomenti da condividere dal parrucchiere, ma che facciano pensare, anche generando consenso. Ma occorrono molte risorse e questo i politici lo sanno. In tempo di austerity, quindi, forse è necessario abbassare le ali. Scegliere di organizzare mostre d’arte di minor consenso, fornendo però al contempo un contributo culturale alla vita e alla storia della città. Mostre i cui cataloghi – quando va bene - non servano semplicemente a colorare le librerie, ma a ospitare contributi seri e innovativi. E lasciare i grandi eventi ad altri “oggetti”, meno costosi delle opere d’arte, come le feste o le sagre, che generano tanto consenso e non necessariamente devono far pensare.
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