La questione non è (solo) dove mettiamo Parolario, ma dove e come si voglia collocare Como nel panorama nazionale, anche attraverso i suoi festival. Mentre la città dei sassi (Matera) festeggia la vittoria del titolo di “Capitale della cultura europea 2019”, quella del lago più bello d’Italia sembra affondare nelle acque profonde e oscure delle liti e delle divisioni.
Che i festival culturali non siano un accessorio di lusso, di cui fare eventualmente a meno in tempi di crisi, ma al contrario catalizzatori di valori e idee dal volto umano nell’era in cui tutto appare liquido e Internet un mare dove la deriva è sempre in agguato, lo ha ben spiegato la scorsa settimana Umberto Eco nella sua “Bustina di Minerva”. E lo conferma il pubblico, che accorre in massa ad ascoltare filosofi, scrittori e poeti.
Se questo fosse un valore condiviso dai comaschi, la risposta sulla sede di Parolario dovrebbe venire da sé: ora che finalmente è fruibile il Chilometro della conoscenza, simbolo e punto di riferimento per lo sviluppo di “Como città della bellezza”, non a caso preinaugurato proprio da Parolario due anni fa in compagnia dei poeti del futuro (quelli nati negli anni Ottanta), si può davvero pensare di collocare la più importante manifestazione culturale cittadina al di fuori di quel magnifico contesto di ville, parchi e, appunto, Lario (troppo spesso presente solo nel nome della rassegna)? Semmai il coinvolgimento del territorio va esteso, a partire da quella sponda lacustre, ovvero da Villa Gallia fino a Villa Erba, utilizzando il Patria come battello letterario che leghi simbolicamente tutte le sedi via acqua, dando un’identità anche fisica ben riconoscibile (e spendibile ben oltre i confini comaschi e nazionali) al dialogo tra “parola” e “Lario”.
Como è stata tra le prime città (dopo Mantova) a comprendere l’importanza dei festival culturali e a organizzarne uno, ma dopo 14 edizioni si ritrova fanalino di coda o quasi nella classifica dei più frequentati e finanziati. E non certo per cattiva volontà degli organizzatori o per scarsa qualità dei relatori, anche se tutto naturalmente è migliorabile. Girando un po’ per gli altri festival - dal mantovano Festivaletteratura a Pordenonelegge, dal festival della Mente di Sarzana a Bergamoscienza, da Leggendo Metropolitano di Cagliari al festival della Comunicazione di cui proprio Eco ha inaugurato la prima edizione un mese fa a Camogli - si notano due differenze sostanziali rispetto a Como. Anzi, una: la partecipazione del tessuto sociale, che a sua volta si declina nel sostegno economico e nella condivisione del progetto da parte di tutti, come momento in cui presentare orgogliosamente il proprio territorio all’Italia (almeno). Gli altri festival, nati quasi tutti dopo Parolario, durano in media 4 giorni in cui la città pullula di eventi e di vita in ogni angolo o quasi (così gli appassionati possono prendersi una camera in albergo o b&b e seguirli: il famoso turismo culturale che sul Lario non decolla) e a livello economico investono dalle 5 alle 10 volte di più rispetto a Parolario.
Bastano questi dati per farci capire una cosa: che bisogna cambiare innanzi tutto mentalità e atteggiamento. Non cercare di chi è la colpa, se qui le cose non funzionano (l’ultimo monumento significativo a Como è stato inaugurato nel 1983 da Pertini ai giardini a lago ed è usato come latrina; le produzioni di Bollywood girano le scene lacustri sul lungolago di Lecco, perché quello comasco è impraticabile da dieci anni, e via discorrendo...), ma cominciare a dialogare e collaborare tutti per obiettivi comuni. Da subito. Da Parolario.
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