Pensavamo che i black bloc fossero dei ragazzacci fino a quando non ci è capitato di assistere a una rissa tra architetti. Altro che bombolette e bombe-carta: qui volano matite e righelli, temperini e squadre. Una profusione letale di oggetti contundenti.
Soprattutto, partono come siluri parole grosse, covano risentimenti personali, si lancia il sempre tonitruante «lei non sa chi sono io» al quale viene opposto, va da sé, il minaccioso «ci vediamo in tribunale». Ecco scoperto come gli architetti fanno spazio alle loro opere: mettine due a discutere e sarà terra bruciata.
Il tribunale, nel caso, è il consiglio di disciplina dell’Ordine degli architetti di Como, davanti al quale, il 19 maggio prossimo, sarà chiamato a comparire Michele Bollini, giovane professionista noto, tra l’altro, per essersi vivacemente schierato a favore dell’opera “The Life Electric” di Daniel Libeskind, in costruzione sulla diga foranea. Sul fronte opposto si è invece disposto un altro professionista comasco – meno giovane (non si offenda: è un banale riscontro anagrafico) – ma ugualmente convinto delle sue opinioni: Darko Pandakovic.
Qualche dichiarazione del primo nei confronti del secondo ha superato il limite? Per ora sappiamo solo che a Bollini si contestano alcune violazioni del codice deontologico, in particolare degli articoli riguardanti «lealtà e correttezza» nei confronti dell’Ordine stesso, nonché i comportamenti che compromettono «l’immagine della categoria» e i rapporti tra professionisti, in particolare il comma che impone all’iscritto di «astenersi da apprezzamenti denigratori nei confronti di un collega».
Tutto ciò sarebbe un problema di “bottega”, non fosse che, sullo sfondo, c’è il dibattito sull’opportunità o meno di accogliere il monumento di Libeskind in una posizione tanto prestigiosa. Non possiamo pensare che l’Ordine “processi” Bollini perché favorevole all’opera, nonostante si sappia come, tra gli architetti comaschi, prevalga di gran lunga l’opinione opposta, eppure questo “procedimento”, come viene definito con terminologia vagamente kafkiana, si riflette sul dibattito stesso, lo definisce per astioso e personalistico e, in ultimo, lo annulla, come quasi sempre del resto avviene per le questioni circa l’amministrazione cittadina: seppellite sotto una serie di obiezioni e contro-obiezioni speciose, pruriti di notorietà, rese dei conti dall’origine fosca e remota.
La notizia dei professionisti che litigano può anche essere a modo suo interessante e di certo stimola la curiosità dei comaschi, sensibili, come tutti, alle faccende private dei personaggi noti se non proprio al pettegolezzo puro: non bisogna dimenticare però (e in quanto giornalista l’ammonimento è rivolto anche a chi scrive) che essa è il sintomo di come poco e male la città riesca a discutere con se stessa. Dietro al dibattito – perlopiù fallito – circa l’opera di Libeskind c’è infatti aperta l’annosa questione dell’immobilismo comasco, della diffusa pratica del veto incrociato, della miopia politica e civile, dell’esitazione nel valorizzare le eccellenze locali: non sia mai che si possa fare, involontariamente, un favore a qualcuno non gradito. La questione, allora, non riguarda più l’opera di Libeskind, avviata alla realizzazione per decisione del Consiglio comunale, quanto la capacità di sintesi tra forze individualmente attive e intelligenti ma incapaci, è dimostrato, di unire gli sforzi, discutere e infine decidere rispettando poi la decisione. Piuttosto, la si butta sul personale. Più di “The Life Electric”, a questo punto, simbolo della Como contemporanea potrebbe essere la Torre di Babele.
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