Da statista alla De Gaulle a macchietta dell’avanspettacolo di Macario il passo, si sa, è più breve di quanto appaia. Il rischio di percorrere questo piano inclinato lo sta correndo Massimo D’Alema. Ed è un peccato. Perché il ragazzo, seppure dotato della medesima simpatia di un bruscolino che ti si infila nell’occhio, è uno che sulla politica bisogna lasciarlo stare. E che si fosse meno riempito di sé al punto che ce non ne basterebbero due per farcelo stare tutto, avrebbe combinato mirabilie. Invece, proprio per questo, ha avuto buon gioco Matteo Renzi a metterlo in cima alla lista dei romttamabili senza incentivi per la gioia dei tanti che non lo potevano soffrire, un po’ per l’alterigia e molto perché sotto sotto era difficile non ammettere quanto fosse bravo.
In teoria. Perché nella pratica la sua certezza di fregare sempre gli altri finiva per far fesso lui. Per informazioni chiedere a Berlusconi Silvio, il più impolitico (in apparenza) di tutti che lo mise nel sacco in due mosse con la Bicamerale. Proprio a lì cominciò il lento declino di D’Alema nonostante due governi presieduti, una tornata alla Farnesina e alcune candidature al Quirinale.
Con l’avvento di Renzi e l’albeggiare della Terza Repubblica, lui che aveva attraversato la Prima e la Seconda da protagonista nel Pci e negli eredi del Partitone rosso, sembrava pronto ad entrare in quel Pantheon degli amabili e innocui padri nobili della politica, quelli di cui ci si ricorda ogni tanto con l’affetto nei confronti di chi si è tolto dai piedi.
Del resto anche il suo alter ego, Walter Veltroni con cui D’Alema aveva amorevolmente rivaleggiato per una quindicina d’anni, dopo aver millantato una fuga in Africa, ha scelto di darsi al cinema.
Se valga di più come politico o regista è un dubbio che ancora non fa dormire qualcuno. A D’Alema invece produrre uno spumante, inevitabilmente entrato subito nell’élite dei migliori al mondo (nella regione di Champagne è tutta una tremarella) non sembra essere bastato. Del resto oltre che bere bisogna anche mangiare: e lui si è sempre nutrito di politica, ma non di quella pane e salame delle sezioni di periferia, bensì della più prelibata dei grandi leader mondiali.
La rentrée, seguita allo smacco di vedersi sorpassare da Federica (chi?) Mogherini nella corsa alla poltrona di mr o mrs Pecs è punteggiata di interviste estive un po’ patetiche («Le beghe del Pd? Io mi occupo dei problemi mondiali, anche se Renzi sta sbagliando...») e blitz alle feste dell’Unità con stop and go su scissioni nel partito e punzecchiature al premier segretario che danno un po’ il senso della zanzara sull’elefante (e purtroppo non per un gigantismo di Matteo).
Alla fine, cosa che gli scoccerà non poco, il truce lider Maximo suscita persino un moto di tenerezza, come quei “romantici rottami” donchisciotteschi cantati da Francesco Guccini. La politica è un mostro che fagocita i suoi figli. Anche quelli migliori, perfino il migliore di tutti.
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