Quando il Como giocava in serie A negli anni Ottanta, prima che - sull’onda delle emozioni della strage dell’Heysel - fossero totalmente stravolte le norme di sicurezza per gli stadi, capitava che qualche tifoso, dalle parti dei distinti del vecchio Sinigaglia, riuscisse anche a scambiare due chiacchiere con i giocatori in campo. Non chiedete date, ma in un match casalingo con la Roma, chi scrive conserva nitida memoria di un dialogo surreale tra un tifoso aggrappato alla rete sotto i distinti, tra una selva di ragazzini maleodoranti e chiassosi senza posto a sedere, e il mitico Tempestilli, memorabile difensore che il destino avrebbe poi portato proprio a Roma. “Er cicoria”, come sarebbe stato ribattezzato qualche tempo dopo, faceva quello che facevano i terzini, e che oggi fanno i cosiddetti “esterni alti” (perché pare che parlare di terzini non sia più di moda). Saliva, cercava il fondo e poi crossava. «Puntalo, che ha paura», gli urlò quel tifoso, invitandolo a saltare l’altro difensore, quello avversario. Lui si voltò, sorrise e rispose divertito, puntandosi l’indice al petto: «Paura di chi? Di me?». E giù risate.
Forse non era un altro calcio, di sicuro era un altro stadio. Al Sinigaglia, incollate al terreno di gioco (qualcuna addirittura “sul” terreno di gioco) entravano 20mila persone, pigiate come calzini in una valigia che non si chiude mai. Non esistevano i parcometri e si posteggiava ovunque. E se fuori, alla fine della partita, i tifosi si prendevano a legnate, beh, si prendevano a legnate e basta. Probabilmente non esistevano neppure i Daspo, senz’altro non c’erano le telecamere che impazzano oggi in mano ai poliziotti o appese ai pali della luce, in modo che nulla sfugga alla legge. Quanto a quelle della tv, che dovevano riprendere le “fasi salienti”, beh, in genere erano impallate dalle colonne della tribuna e a Novantesimo minuto dovevi solo sperare che la farsa del solito rigore rubato da Maradona non si fosse consumata dietro al pilone.
Se qualcuno avesse parlato di tornelli lo avrebbero preso per pazzo. Si entrava cercando di comporre qualcosa che fosse vagamente assimilabile a una “coda”, spingendosi e tentando, tutt’al più, di preservare i bambini dal soffocamento, avendo le mani generalmente già occupate dall’autoradio e dal cuscinetto azzurro ripiegato con l’elastico.
Il dialogo con un giocatore in campo, nel calcio di oggi, sarebbe improponibile. Così come è improponibile illudersi che uno stadio come il nostro potrà mai più accogliere bolge come quelle di allora.
La verità è una soltanto: e cioè che, stanti le regole attuali, il vecchio Sinigaglia lavorerà sempre in “deroga”. E che qualcuno dovrebbe trovare il coraggio di dirlo a chiare lettere, una volta per tutte. Non convince neppure l’idea di metterci mano. I tedeschi,quelli che dopo avere rifatto l’impianto del Borussia Moenchengladbach avevano manifestato analogo interesse anche per il nostro - paradossalmente uno dei più belli d’Italia, se non altro per la posizione - non si sono più fatti sentire, e chissà che nel frattempo non abbiano scambiato quattro chiacchiere con Antonio Planchenstainer e Davide Mantero, gli ultimi progettisti chiamati, a cavallo degli anni Duemila, a occuparsi di un restauro. Dovettero impazzire per venirne a capo tra i diktat imposti dalla Soprintendenza in un’area che, come sanno anche i muri, è vincolata per intero, anche se poi - incomprensibilmente - basta dire che una struttura è removibile (la rete installata in questi giorni ai giardini, una bruttura senza pari) perché tutto diventi percorribile e la Soprintendenza si eclissi. Ora: trasformare il Sinigaglia, possibilmente senza soluzioni transitorie, in un impianto che sia davvero e per intero adeguato alle norme del calcio moderno, è un’impresa se non impossibile quantomeno improbabile. E forse è il caso che qualcuno si decida ad ammetterlo.
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