Alto tradimento. E proprio nel momento in cui, in bocca, si aveva ancora il buon sapore delle grandi imprese. Alto tradimento. Perché lui, Mauro Santambrogio da Cremnago d’Inverigo era la faccia pulita del nostro ciclismo. Il bambino diventato grande, pedalata dopo pedalata. Il professionista sbocciato al Giro d’Italia, dopo un inizio di stagione esaltante. Come, per lui, non era mai stato prima.
Alto tradimento. Visto che avevamo appena smaltito la rabbia per un Danilo Di Luca - ironia della sorte, suo compagno di squadra alla Vini Fantini - preso un’altra volta con le mani nella marmellata del doping. Ma, soprattutto e a far da contraltare a questa sporca storia tra cronaca e sport, avevamo appena finito di gioire per le imprese della coppia P&S, al secolo Paolini e Santambrogio, per quanto di bello - uno in rosa, l’altro in classifica - avevano fatto vedere in corsa. Portando in alto la Como delle due ruote spinte dai muscoli delle gambe e non da un motore. Invece, ancora una volta, è una provetta a fornire la prova.
Epo, tre lettere. Come tre le righe che sono bastate all’Ansa per far gelare il sangue nelle vene non solo degli appassionati comaschi, visto che Santambrogio è sì un figlio di queste terre, ma è anche un patrimonio di tutti. Così come di tutti è quel ciclismo che ogni giorno richiama migliaia e migliaia di fedelissimi sulle strade, quando si tratta di diventare parte attiva, e lungo i percorsi, quando la voglia - matta - è quella di sostenere gli sforzi e le fatiche dei campioni.
La notizia della positività del ventottenne comasco - come spesso accade in questi casi - suona già come una condanna. Anche se manca ancora l’esito della controanalisi, il condizionale, che dovrebbe essere d’obbligo, viene spesso sostituito da quel tempo presente che vale una sentenza. La cosa peggiore di tutte. Purtuttavia, la storia ha anche insegnato che sono rare le situazioni poi ribaltate dall’esame del secondo campione.
Fosse vero, e cioè Santambrogio fosse confermato positivo, saremmo davanti all’ennesimo campione di plastica in uno sport che - stando ai maligni - continua a essere di plastica. E forse pure finto. Perché nient’altro che coacervo di furbastri, sempre pronti al dolo e anche convinti di essere così bravi da fare un passo in più rispetto ai controlli.
Ma qualcuno, fortuna nostra, ogni tanto ci lascia lo zampino, perché le maglie dell’antidoping - strette o larghe, sarà la storia a decretarlo - ogni tanto, e meno male, diventano anche invalicabili.
E allora, se questo sport vorrà avere un futuro, e non solo in termini di credibilità, dovrà anche avere il coraggio di fare delle scelte. Fermarsi, se è il caso. Ma soprattutto fermare un fenomeno che non è solo malcostume, ma che è anche quanto più di pericoloso - a livello di salute - possa accadere a un uomo, prima ancora che a un atleta. Il coraggio, insomma, di dire basta.
Colpevole o innocente che sia Santambrogio, lo si deve innanzitutto a tutti quei ragazzini che, ogni domenica, animano le corse con l’entusiasmo acceso dalla passione. Sono i primi che non si meritano un tradimento. L’alto tradimento.
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