E alla fine, se si vuole capire qualcosa della sinistra italiana, è sempre lì che bisogna tornare. Al suo ventriloquo, al suo padre spirituale, al suo psicanalista junghiano, al suo unico monolito capace di decrittare pulsioni, tic e birignao del partito più kafkiano e autolesionista del mondo: Nanni Moretti.
Non servono saggi di filosofia politica, biografie generalmente agiografiche di Berlinguer, scaffali di introspezioni sociologiche edite da Feltrinelli e svariati altri chilotoni di sacri testi per cogliere che cosa diavolo sia quel pastrocchio di velleitarismi e pulsioni al quale da mezzo secolo resta appeso questo paese. Basta ripensare a una delle scene cult di “Ecce bombo”, nella quale il frustratissimo ex sessantottino Michele Apicella (alter ego di Moretti), incerto se partecipare o meno a una tipica festa del sabato sera della gioventù comunista romana della fine degli anni Settanta, domandava a un suo amico: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte oppure se non vengo per niente”? Applausi. Un genio. Tutta una psicologia egocentrica, autoreferenziale e culturalmente masturbatoria portata a sintesi in uno spezzone di sequenza. Niente da dire, Moretti non sarà un grande regista però è il vero vate profetico non solo della politica, ma anche di larga parte della società italiana. Anche perché da quel punto, il Pci e poi Pds e poi Ds e poi Pd non si è mai staccato per davvero. Ë quello il cordone ombelicale attorno al qual si avvoltola, neghittoso e inconcludente, quando non governa e con il quale, invece, si strozza le rare volte in cui gli capita di entrare nella stanza dei bottoni.
L’invettiva contro lo snobismo della sinistra italiana lanciata qualche giorno fa da Matteo Renzi, che con tutta probabilità si rivelerà un clamoroso bluff ma che di certo è un tipo molto svelto, non è quindi casuale e, in vista di più o meno lontane elezioni, coglie davvero nel segno. Perché è vera. Nulla nasce per caso. Tutto ha una storia. E questa storia parte proprio dall’emersione di quella cultura di sinistra snobistica, elitaria e profondamente antipopolare nell’Italia degli anni Settanta senza più alcun legame vettoriale con quella che era la storia del Pci nella sua accezione togliattiana. Insomma, nella buona borghesia italiana, e romana in particolare, essere comunisti non voleva dire di aver letto Marx o Engels o i cervelloni della Scuola di Francoforte o i teoreti delle insanabili contraddizioni del sistema capitalistico – tutta roba che si citava a piene mani durante le autogestioni universitarie o le spassosissime sedute di autocoscienza raccontate in “Ecce Bombo” – ma invece aver frequentato quei locali, aver filosofeggiato su quelle terrazze, essere andati in vacanza su quelle spiagge greche o portoghesi con quelle persone, quei romanzi, quelle chitarre. Non era ideologia vera, profonda e perseguita con coscienza, ma solo uno stile di vita, in fondo neanche tanto meno massificato rispetto a quello dei ragazzotti di oggi che se papà non gli compra l’ultimo iPhone si sentono dei falliti. Togliete Apple e mettete al suo posto espadrillas, Garcia Marquez e maglionazzo peruviano e più o meno siamo lì…
Era tutto un mondo sconnesso dalla realtà vera ed effettuale, che veniva sopportata solo e soltanto per indirizzarla con afflato pedagogico verso i suoi fini più alti e progressivi perché, diciamoci la verità, il popolo era una roba che faceva schifo, creta da plasmare per trasformarla in carne da cannone delle avanguardie della cultura gramscianamente tese a tutto occupare, tutto programmare e tutto divulgare in canoni ortodossi e palingenetici. Insomma, una generazione di fanfaroni con la puzza sotto il naso. Da qui tutta quella battaglia di retroguardia contro qualsiasi cosa che vestisse i colori del nuovo e che mettesse in moto un meccanismo di trasformazione sociale non controllabile dal binario unico partito-cooperativa-sindacato e che, nello scalpitare del boom economico degli anni Ottanta, rendeva così insopportabile Berlinguer a Craxi: “Quello lì è uno che non ha neppure la tivù a colori”. Ora, da un punto di vista etico-morale, visto come sono andate a finire le cose, aveva ragione mille volte il segretario comunista, che però aveva mille volte torto nella sua radicale incomprensione di una società nuova che aveva abbandonato per sempre gli anni tragici del dopoguerra e del terrorismo. Il Pci, da lì in avanti, non ci avrebbe capito più niente e proprio per questo la via di fuga, l’alibi per i suoi continui rovesci è stato quello di dare la colpa al popolo italiota, analfabeta, senza principi, servo di mille padroni, spaghettaro e familista amorale. Tutto vero, per carità, ma da un partito serio uno si aspetta la soluzione a questi realissimi deficit strutturali della propria nazione, non il rifugio nella torre d’avorio dall’alto della quale si disprezza tutto e tutti perché sono loro che sono inferiori, non noi che ce la tiriamo da geni incompresi.
L’astuto, vanesio e a tratti davvero spocchioso Renzi ha colto benissimo il punto di crisi del suo partito di appartenenza, senza la cui soluzione ogni speranza di vittoria vera, non dimezzata e non “largamente condivisa” deve passare. Se non conquisti i voti degli elettori del Pdl – anzi di Forza Italia, a quanto pare – le elezioni non le vincerai mai. Ma per far questo bisogna piantarla di considerarli tutti dei subumani, evasori fiscali, affamatori del popolo e servi del padrone: vi sembra forse che il macchiettistico establishment del Pd sia all’altezza di questo compito?
Fortuna che dall’altra parte le cose sono molto più semplici: un satrapo che fa e disfa e le sue salmerie più o meno ossequiose. Aveva ragione Letta dopo il voto di fiducia. Solo un “grande” come Berlusconi, nel rapporto con i suoi parlamentari, poteva identificarsi in modo così assoluto con il cinico e arrogante Alberto Sordi (non a caso odiatissimo da Moretti) del Marchese del Grillo: “Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un…”:
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