Bandiere dei sindacati e un gruppetto (esiguo, per la verità) di dipendenti dell’amministrazione provinciale di Como che occupano l’aula del consiglio provinciale. Un’immagine che, estrapolata dai numeri (occupazione di appena quindici minuti e portata avanti da una quindicina di lavoratori sui 182 in esubero sui 370 totali), rappresenta a suo modo una rivoluzione. Un rovesciamento di prospettiva.
Fino a giovedì scorso non si era mai visto un dipendente pubblico protestare per difendere il suo posto di lavoro perché nessuno aveva mai pensato di poter anche semplicemente mettere in discussione la certezza che l’impiego pubblico debba essere garantito al 100%. Per la prima volta, però, sulla granitica certezza, si è posata qualche ombra. Piccolissima, in realtà, visto che sia dal Governo sia dalla stessa presidente della Provincia Maria Rita Livio, sono arrivate rassicurazioni che <nessuno sarà lasciato a casa>. Piccola, ma sufficiente per rovesciare un approccio culturale che da sempre caratterizza la galassia, tutt’altro che uniforme, del pubblico impiego.
La parola <esuberi> pronunciata per la prima volta un ente pubblico ha portato, e non solo a Como, a occupazioni di sale consiliari e manifestazioni già programmate davanti ai palazzi regionali e statali.
Una parola che però, migliaia e migliaia di lavoratori del settore privato, hanno dovuto imparare a conoscere da vicino benché consapevoli fin dal primo giorno di lavoro che la scrivania o il turno di notte avrebbero potuto, in futuro, non esserci più. E per molti di loro non si è trattato di una caduta con il paracadute già quasi completamente aperto, come sta avvenendo per le Province. Per qualcosa come un milione di persone in tutta in Italia negli ultimi anni, e per qualche migliaia nel Comasco, la parola <esubero> si è anche trasformata in <cassa integrazione> prima e in quella tanto lunga quanto drammatica di <licenziamento> poi. Ma, proprio per quell’approccio culturale che da sempre contraddistingue chi guarda al settore privato, non c’è stata alcuna sorpresa. Ci sono stati i tentativi (che hanno coinvolto, nei casi peggiori, anche gli enti pubblici a tutti i livelli) per salvare il posto di lavoro in un momento storico in cui, la consapevolezza che trovarne un altro – soprattutto per il troppo giovani per la pensione e i troppo vecchi per il primo impiego -, è estremamente complicato. Ma se a fare notizia sono sempre i grandi numeri, il settore privato è stato interessato e lo è ancora, da uno stillicidio di licenziamenti nelle piccole e medie imprese.
Ecco allora che anche per Villa Saporiti è arrivato il momento di confrontarsi con parole e paure che mai nessuno avrebbe pensato di doversi trovare ad affrontare. Le rassicurazioni, come detto, sono già – giustamente – arrivate da più parti che il posto sarà garantito, anche se non più in via Borgovico. Gli esuberi saranno infatti spalmati in Comuni e altri Enti, ma per ora nessuno dei 182 dipendenti della Provincia conosce quale sarà la sua destinazione e, su questo, hanno tutte le ragioni di rivendicare chiarezza perché uno spostamento di sede significa una piccola rivoluzione all’interno della propria famiglia. Oltre ai lavoratori, però, qualche garanzia andrebbe data ai cittadini, che dovrebbero essere tenuti in considerazione quando si parla di servizi e numeri superiori a tante aziende. Ai genitori che mandano i figli al Cfp di via Bellinzona, ad esempio, che hanno il diritto di sapere chi e come gestirà la scuola in cui ipotecano il futuro dei loro beni più preziosi. Ma anche ai disoccupati o a quelle centinaia di persone che, sulla loro pelle, la parola <licenziamento>, l’hanno vissuta perché devono sapere chi e come gestirà quello che, comunemente, è l’ufficio di collocamento. Forse è arrivato il momento di provare, almeno, a guardare tutto da prospettive diverse.
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