C’è chi non colora di rosa il futuro di Como debitore dell’industria turistica. E non uno qualunque, perché il filosofo Matteo Vegetti è un pluridocente con pensiero affilato dalla pratica di pluridiscipline estetico/formali. L’ha detto senza veli in un’intervista contenuta nel volume “Fisionomie lariane” (Nodolibri, 2015) pubblicato per iniziativa dell‘Ordine Architetti, intervista riproposta in sintesi ne L’Ordine di domenica scorsa. Con il turismo, dice Vegetti, nell’immediato si avrà probabilmente qualche successo di resa economica, ma per un tempo breve, poi si ricadrà in un immobilismo che sembra diventato il nostro cronico maleficio. Ci rifugiamo troppo nella memoria, asserisce il filosofo, bisogna rendersi conto che si cambia, anche i luoghi si trasformano, persino il lago che consideriamo un patrimonio immutabile potrebbe essere considerato una risorsa ampliabile che non sfruttiamo come dovremmo.
L’articolo che sviluppava queste considerazioni critiche era presentato da un titolo che ne radicalizzava le conclusioni, come capita del resto in tutti i titoli giornalistici, costretti a condensare contenuti spesso non imprigionabili in tre parole: “La città e il lago separati in casa”. Casualmente, è anche un vecchio pallino del modesto scrivente, almeno fin dal 1995, quando apparve il volume “Como e il suo territorio” (Cariplo, Milano) in cui, accanto a testi saggistici ben più importanti del mio contributo, cercavo di ricostruire il difficile rapporto fra una città che fino all’Ottocento dominò il lago che prendeva il nome da lei e man mano, per le circostanze sopravvenute, venne emarginata dalla fama internazionale del Lario e finì a doversi ricomporre un’identità a parte. Da detentrice di «una chiave consolidata di più circuiti commerciali e viari» (Aldo Carera cit.) Como passò di ruolo a semplice zona di partenza per le gite lacustri e l’antico dominio commerciale regredì a semplice connubio d’immagine.
Ma il passato è passato e il periodo che stiamo attraversando non vede di buon occhio gli storici, rimproverandoli di guardarsi troppo alle spalle e persino di trattare troppo ciò che accade oggi. Se vogliamo progettare il futuro dobbiamo lasciar perdere il presente, l’ha affermato persino un guru della statura di Emanuele Severino. Va bene. Smettiamola di rimpiangere l’eclisse di un’industria serica una volta tanto importante da guadagnarsi il primato in Europa e da qui dovunque, ma che non è affatto scomparsa e merita tuttora un posto di riguardo. Usciamo finalmente dalle sabbie mobili della sciagurata impresa delle paratie. Governiamo i flussi turistici senza lasciarci irretire da guadagni di settore che rischiano di mantenere la città in una posizione “minoritaria”. E poi che possiamo fare? Molte cose, suggerisce Vegetti. Per esempio, considerare che Como «vive sul lago» e quindi potrebbe «riutilizzare l’elemento dell’acqua per gli spostamenti» ottenendo di guadagnare «nuovi scenari». Toh, allora facciamo un passo indietro, ritroviamo la Como degli anni d’oro che considerava il lago se non proprio una sua appendice certo un’estensione inseparabile del territorio di sua pertinenza. Rivalutiamo le ricerche storiche, non neghiamo la memoria perché di essa sono intessuti gli spazi in cui ci muoviamo, evitiamo di separare la città dal lago «quando evidentemente sono la stessa cosa». Sono parole, queste ultime, del giovane Giovanni Sallusti, non di anziani nostalgici. Ed è da un giovane che, malgrado denunci il fallimento di troppi propositi e gli errori commessi, viene l’incoraggiamento più confortante, per tutti. «Proviamoci, finché siamo in tempo».
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