Come è possibile che una società ricca come la nostra non sia capace di soddisfare i propri bisogni? Le risorse economiche, tecnologiche, umane non mancano di certo eppure finiamo spesso per lasciarle inutilizzate, sprecate e dunque destinate a trasformarsi in problemi. Basti pensare alla disoccupazione, soprattutto a quella giovanile. Come se a tavola rispedissimo indietro ghiotte portate, con lo stomaco che ancora reclama. Un incredibile paradosso.
Detto nel modo più semplice: che cosa ci impedisce di vivere tutti meglio? Verrebbe da rispondere che il libero mercato da una parte e le amministrazioni pubbliche dall’altra hanno dimostrato chiari limiti nel garantire un razionale ed efficace impiego delle risorse. E che proprio da questa carenza di fondo trae origine la crisi che ancora ci attanaglia.
Di fatto, rimane comunque uno scarto, una distanza tra i bisogni che tutti insieme enunciamo, magari a vario titolo coinvolti, e le risposte capaci di soddisfarli. Perché? Non abbiamo la forza per farcene carico? Ecco il punto. La sostenibilità. Nessuno, da solo, potrebbe mai farcela a sorreggere simili pesi. Ma i bisogni che chiamiamo sociali, ovvero espressi da tutti, devono anche meritarsi l’impegno di tutti.
Anche il nostro territorio si sta mostrando sempre più sensibile al tema. “Fare squadra”, “creare sinergie”, “costruire una rete”... sono tutte formule divenute come dei mantra in dibattiti pubblici o tavoli di lavoro. Il problema, però, rimane sempre il passaggio all’azione. Chi darà il via? Chi farà il primo passo? Come evitare il rischio che qualcuno si senta subito escluso perché non simultaneamente coinvolto? C’è un problema di sincronismo, come in una danza in cui manchi il coreografo.
Per superare questa impasse occorre l’impegno di qualcuno capace di catalizzare le risorse da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati. E’ indispensabile che un soggetto si assuma il compito di volano al servizio della collettività. Dove cercarlo? Questa missione ha già una casa: è nel DNA delle organizzazioni non profit.
Dato lo scenario attuale, il loro ruolo si è fatto ancora più nodale. Eppure non tutte ne sono consapevoli. Non tutte sanno valorizzare questa loro peculiarità. In alcuni casi finiscono anzi per oscillare tra l’accattonaggio e il marketing più spregiudicato. Si impone un ripensamento. O meglio, una pausa davanti allo specchio, con una domanda: chi siamo?
Le organizzazioni che perseguono finalità di utilità sociale devono oggi, con urgenza e orgoglio, riappropriarsi della propria identità. Per farlo, vi possono essere mille strade. La Fondazione Comasca, che mi onoro di presiedere, ne suggerisce una che va a scavare sino all’ultima radice da cui trae linfa ogni attività sociale degna di tale nome: il dono. Questo è il concetto che forse più di qualunque altro può elevare il ruolo delle non profit al di sopra di ogni pericoloso fraintendimento. Il privato sociale non è nato né per rimediare ai fallimenti del mercato, né a quelli dello Stato. Esso non è sorto per erogare a costi contenuti servizi per conto delle pubbliche amministrazioni o per tamponare le falle più evidenti di un mondo privo di poesia. La sua missione è proclamare quegli ideali di liberalità e giustizia che sono il fondamento dell’umana dignità.
Su questi temi e altro ancora sarò bello discutere e confrontarsi insieme al convegno di sabato 15 ottobre presso l’Università degli Studi dell’Insubria, sede di Sant’Abbondio, insieme a un folto numero di esperti (una quarantina) provenienti da tutto il mondo.
L’ambizioso obiettivo della Fondazione Comasca è quello di contribuire a porre le basi per trasformare il terzo settore comasco in un modello per il Paese. Ce la possiamo fare. Ma tutti insieme e per davvero.
* presidente Fondazione Provinciale della Comunità Comasca© RIPRODUZIONE RISERVATA