Per nulla preoccupato dalle proteste, Matteo Renzi detta dagli Stati Uniti i tempi della riforma del lavoro: ci sarà lunedì prossimo una discussione in Direzione con la minoranza, ma poi si deciderà con un voto e tutto il Pd dovrà adeguarsi.
Una posizione forte che lascia ben pochi margini alla trattativa e alle timide aperture che giungono dai bersaniani e dalla Cgil. Il premier infatti ritiene «non rinviabile» una rapida approvazione del Jobs Act e non sembra disposto ad immolare sull’altare dell’unanimismo il forte segnale di cambiamento del Paese preannunciato a New York. E’ la sinistra interna, dice il Rottamatore, e non la destra a voler mantenere lo status quo dello Statuto dei lavoratori, ritenendolo l’unico modo di dimostrarsi progressista.
Ma qualcosa il segretario-premier dovrà pur concedere agli oppositori. Del resto l’ alternativa sarebbe disastrosa per la minoranza dem: lo ha lasciato capire l’invito di Beppe Grillo agli antirenziani a unire le forze per mandare a casa il capo del governo, subito respinto al mittente. Portare lo scontro interno al punto di rottura significherebbe evocare lo spettro di una disastrosa scissione che l’elettorato non capirebbe in un momento di grave crisi economica. Si troverà una soluzione unitaria, presumibilmente con la rinuncia all’ oltranzismo sul Jobs Act.
La fermezza di Renzi, che a New York ha anche criticato implicitamente la Germania parlando del «terribile errore» dell’austerity e degli insegnamenti per la crescita che vengono dall’America, è una scelta obbligata. Si tratta di dimostrare che le promesse non sono solo chiacchiere e che un timoniere determinato le può attuare. La sfiducia che gli ha espresso il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli è il segnale che una parte del mondo produttivo teme un replay del passato; Sergio Marchionne viceversa ha manifestato il suo apprezzamento per il Rottamatore e il suo programma. Il Pd, come dice il presidente Matteo Orfini, non deve ripetere l’errore di restare impigliato nei patti con l’establishment, cioè con i «poteri forti» e i «salotti buoni» bersaglio degli strali di Renzi, perché in accordi del genere non c’è mai trasparenza.
La differenza, rispetto al passato, è che stavolta il leader vuole rischiare tutta la posta: è deciso a varare in rapida sequenza Jobs Act, riforma della Pubblica amministrazione («essenziale per scardinare i poteri di veto»), Italicum e Senato. Accettando poi a tempo debito il verdetto delle urne.
Difficile negare che si tratti di un esperimento radicale che richiederà notevoli doti di equilibrismo. Soprattutto nei rapporti con gli alfaniani e con i berlusconiani, impegnati nel tentativo di ricostruzione di un centrodestra che dovrebbe rappresentare l’antagonista del Pd a vocazione maggioritaria nelle elezioni politiche. E’ una situazione che comporta una certa dose di ambiguità, con il Ncd in maggioranza che rivendica la paternità della battaglia sull’art. 18 e Forza Italia all’ opposizione ma non così distante, pronta al «soccorso azzurro’’ in caso di defezioni in campo democratico. Su questo fronte si gioca la partita più delicata: pur di non rendere determinanti i voti di Fi, il premier è pronto alla fiducia sul Jobs Act, scelta che rappresenterebbe un forte stress per i rapporti interni
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