E così, la garrota del tempo ha stritolato pure lui. Non si scappa alle cadenze infernali del calendario, chiunque tu possa essere: poeta, santo, navigatore o gran Mogol del Bengala orientale. Arriva il momento in cui il tuo tempo è finito e da lì in poi, per quanto tu abbia fatto e disfatto, vinto e rivinto, trescato e brigato, non conti più niente. Tutto passato. Tutto finito. Nell’attesa, malinconica e rancorosa, che scaraventino le tue quattro ossa sotto sei piedi di terra. E questo è quanto.
La vicenda – dolorosa, scioccante, ma anche clamorosamente pedagogica – di Adriano Galliani e delle sue dimissioni dal Milan va ben oltre il cerchio magico del calcio e delle sue scintillanti miserie, per affondare invece le radici in uno dei tòpos più profondi e insondabili dell’esistenza umana, che nessuna frasetta untuosa all’insegna del politicamente corretto tipo “ricambio generazionale” può rendere meno drammatica. E non facciamoci ingannare dal solito colpo di teatro che Berlusconi ci ha regalato ieri (“Galliani resta al suo posto!”): quello serve solo a congelare la situazione fino a primavera evitando che la faccenda finisca ancor di più a pesci in faccia. La sostanza non cambia.
A pensarci bene, non manca neppure un elemento per la costruzione di una pièce antica come il mondo. Il vecchio potente abbarbicato alla sua poltrona sostenuta da anni di successi, trionfi e chissà quanti inconfessabili segreti. Il Capo Assoluto multiforme e inossidabile, motore immobile al cui servizio il vecchio potente ha costruito tutti i passaggi della sua mirabolante carriera. Un mondo - quello del pallone - opaco, flaccido, borderline e tanto spesso pencolante tra il familismo, il populismo e il banditismo, innestato nella pancia della più profonda cultura popolare espressa da un paese sudamericano come il nostro. Una giovane con tutta probabilità totalmente sprovveduta nel merito, ma resa invincibile dal legame del sangue. Il codazzo dei servi, delle salmerie e dei pidocchi impossibili da scacciare anche usando un litro di trementina e infatti già pronto a un riallineamento badogliano sulla scia del la nuova padronessa del vapore. E infine, e soprattutto, i tempi che non sono più quelli di una volta, signora mia, e non c’è rispetto, non c’è onore, non c’è riconoscenza…
Ora, il punto non è tanto su chi abbia ragione e chi torto in questo intrigo scespiriano solo superficialmente di serie B – onta subita in passato dal Milan, ma non certo da quello di Galliani – anche se è difficile non condividere i contenuti e i toni, rilasciati non a caso a un giornale nemico come “Repubblica”, contro l’umiliazione a cui il manager più vincente della storia del calcio italiano è stato sottoposto da una “ragazzina” che probabilmente non sa nemmeno come sia fatto un pallone e la cui unica competenza specifica risiede nelle nottate in discoteca con Pato, talentuosissimo ma al contempo coniglissimo ex centravanti milanista. Diciamoci la verità, almeno tra lettori maschietti: ha ragione Galliani.
Ma non è questo ciò che importa. Così come il fatto che il suo tramonto sia strettamente connesso a quello di Berlusconi, in qualche modo simile al disfacimento narrato nei “Vicerè” di De Roberto, e che in fondo lui sia solo l’ultimo nome degli scomparsi e dei sacrificati sull’altare del Dio Silvio, come ricordato ieri in un bel pezzo di Mattia Feltri sulla Stampa: Dell’Utri, Maurizio Costanzo, Liguori, Martino, Tremonti, Previti, Della Valle, Dotti, Pecorella, Colletti, Melograni, Biondi, Urbani, Pisanu, Parenti, Moratti (Letizia), Letta (Gianni). Incredibile, anche Letta. E ora, pure Galliani.
Tutto vero, d’accordo, ma non decisivo. L’aspetto davvero doloroso di questa vicenda è come la fine della sua carriera e la defenestrazione dalla stanza dei bottoni abbia trovato così impreparato, collerico, permaloso (“Sono vicepresidente, amministratore delegato, direttore generale e direttore commerciale: dovranno assumerne quattro per sostituirmi!”) e così poco saggio un uomo cinico e mostruosamente spregiudicato come lui. Quasi che anche il top manager rossonero fosse stato colpito da quella sindrome sfuggente e terribile che azzanna tutti quelli che per caso, per merito o per affiliazione politica si siano trovati sulla poltrona del potere: il distacco dalla realtà e la presunzione di poterlo esercitare per sempre. Questo è il vero dramma: non tanto perderlo, ma non capire che prima o poi avverrà. E se anche tu avessi mille volte ragione e fossi stato mille volte tradito e mille volte umiliato e mille e mille volte ancora vilipeso, beh, dovresti aver già messo tutto nel conto. Che il tradimento non dorme mai, che tutti possono tradire, che solo i morti non tradiscono e che nelle cene (anche in quelle di Arcore) si infila sempre un Giuda, un filisteo, una Salomè e anche un rottamatore pronto a rottamare i rottamandi tremando poi al pensiero di essere a sua volta rottamato. E che anche se hai talento, per quanto doloroso possa essere, il talento non dura e il tuo momento è destinato a finire. Quanto puoi tirare ancora avanti a decidere, a comandare, a colpire, a punire, a combattere? Un anno? Due? Cinque? Non ci sono incontri per i vecchi pugili. Non c’è nessuno di indispensabile a questo mondo. Nessuno. I cimiteri sono pieni di gente indispensabile. Anche se, tanto tempo prima – chi se lo ricorderà tra cinquant’anni? - avevano vinto cinque coppe dei campioni.
E allora cerchiamo di applicare questa lezione alle nostre piccole vite e ai nostri piccoli incarichi, tanto più irrilevanti rispetto a quelli di questi pezzi da novanta, e se per caso ci capita di avere in dote per qualche tempo poteri più o meno grandi chiediamoci sempre se siamo davvero all’altezza di gestirli con tutta la durezza, ma anche con tutta l’umiltà che richiedono. E sapete quando avremo capito che sì, dopo tanta fatica e tanto studio e tante batoste siamo finalmente in grado di esercitare quel ruolo? Quando saremo pronti a lasciarlo.
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