Grande bluff
o grande bellezza?

In una scena memorabile dell’Armata Brancaleone, Vittorio Gassman, cialtrone ma coraggioso, urla ai suoi soldati straccioni “Sequitemi, miei pugnaci!” e si lancia al galoppo per salvare una giovane dama assalita dai barbari.

Loro però, cialtroni e basta, se ne guardano bene e aspettano di vederlo sconfiggere da solo la banda dei predoni per arrivare poi tranquillamente quando non c’è più alcun pericolo. Al che Brancaleone prima li incenerisce con lo sguardo e poi li apostrofa con disprezzo sommo, teatrale e spassosissimo: «Oh gioveni! Quando vi dico sequitemi miei


pugnaci, dovete sequire et pugnare. Se no qui stemo a prenderci per le natiche!».

Proviamo a pensarci un attimo. Basta sostituire Gassman con Renzi e Abacuc, Pecoro, Taccone, Mangold e Teofilatto dei Leonzi con la pletora di mostri, traffichini, burocrati forforosi, carognini dell’oratorio ed intellettuali organici con l’uzzolo del teatro alternativo in calzamaglia che si annida nelle retroguardie, e pure nelle avanguardie, del Pd e il gioco è fatto. Uno, stravagante, ambizioso e cacciapalle, che corre verso la gloria e gli altri, mezze tacche di purissimo stampo lombrosiano, che stanno lì ad aspettare che si schianti. Certo, manca alla regia un genio come Monicelli, perché ultimamente anche il capo dello Stato pare non imbroccarne più manco mezza, ma forse il segreto di tutta questa vicenda mai così meravigliosamente italiana è che una regia non c’è. D’altronde se quello là è il paese di Dunkerque e questo qui, invece, quello di Caporetto un motivo dovrà pur esserci.

Ora, non è che sia obbligatorio inventarsi sempre una metafora per ogni cosa che accade nel sordido e fanghiglioso mondo della politica, ma forse quella grottesca è l’unica chiave di lettura che ci possa permettere di capirne qualcosa. Perché se uno si dovesse abbeverare solo all’informazione nazional-istituzional-generalista c’è da andare fuori di testa, oltre che procurarsi un bel paio di ginocchiere per la lettura e un deumidificatore per asciugare le colate di bava che grondano dalle austere e algide riflessioni di tanti soloni del pensiero unico unificato e unificante. E che, questa la vera notizia, sono esattamente le stesse identiche spiaccicate scritte nei giorni dell’incarico a Monti e poi di quello a Letta, come ricordato in un pezzo strepitoso sul Fatto quotidiano da un tipo schierato e ipernarciso ma documentatissimo come Marco Travaglio. Anche perché gli stessi incensatori e zerbinatori degli ultimi due premier sono gli stessi che un attimo prima, e spesso pure un attimo dopo, della loro rovinosa caduta li hanno maramaldeggiati alla stregua di beoni da osteria. E in effetti, come ricordato dal piddino Civati con un’immagine granguignolesca, il trattamento riservato l’altro giorno da Renzi, dalla direzione del Pd e dai media padroni del vapore a Letta è davvero simile a quello della giraffa dello zoo di Copenaghen, giustiziata e smembrata davanti ai bambini e poi data in pasto ai leoni. Per quante se ne siano viste in quel mondo di triplogiochisti, una roba da aver paura. Anche perché, considerato lo sfascio su cui galleggiano le istituzioni e il marasma nel quale sta affondando una società allo sbando è una fortuna che questo rimanga un paese da operetta, perché altrimenti se il salvatore della patria non fosse un ragazzaccio con la zeppola e il chiodo di Fonzie ma invece un piccoletto con i baffini o un crapapelata con gli occhi spiritati ci sarebbe da farsi veramente il segno della croce.

Ma questa è la fine che fanno tutti quelli che perdono, in ogni paese del mondo, naturalmente, ma in Italia con quel tocco di cinismo, di otto settembre e di schifezza in più, con quella filosofia immanente del calcio dell’asino alla quale tutti ci siamo abbeverati e della quale sembra che nessuno riesca proprio a fare a meno. E Renzi sa bene che, col carico di simpatie che si sta attirando in questi giorni, la fine di Letta è paragonabile a un tea all’inglese in confronto a quella che faranno fare a lui in caso di fallimento. E’ solo. Assolutamente solo. Tutti i capi lo sono. Ma lui di più. E, purtroppo, la sua non è una solitudine eroica, vitalistica, hamingwayana, ma appunto quella di Brancaleone da Norcia, circondato da pezzenti e diseredati, del quale oltretutto non si riesce mai a capire fino in fondo, sotto la coltre delle risate, che cosa sia. Un eroe? Un visionario? Un Don Chisciotte? Un cialtronazzo da due lire? Un cavaliere animato da sane virtù e principi cavallereschi grazie ai quali cambiare il mondo e che però non riesce a farsi ubbidire manco dal ronzino Aquilante?

Diciamoci la verità, chi ci ha capito ancora qualcosa di questo qui? Certo, la giovinezza, la generazione televisiva, la comprensione che l’epoca del “noi” e della complessità forgiata dal dopoguerra e dalla prima Repubblica è finita per sempre, la bruciante esibizione della propria ambizione (e questo per un politico è un lato positivo), la nascita di un linguaggio nuovo e di tempi nuovi con i quali correre verso la stanza dei bottoni. Questo è chiaro, è del resto che non si capisce niente. Che c’è lì sotto? Un grande bluff o una grande bellezza? L’unica cosa che si può intuire adesso è che il tipetto, oltre ad altre qualità, ha di certo quella della fortuna, elemento decisivo da Machiavelli in giù per le sorti del potere. Quel classico fattore C che ha fatto vincere all’Italia un paio di mondiali e che per lui può prendere la forma della fine della recessione: se riesce a imbroccare la ripresa rischia pure di farcela ad arrivare al di là del guado. Senza dimenticarsi però che ogni ponte ha i suoi tranelli. Anche il monaco Zenone dell’Armata Brancaleone era certo della solidità del “cavalcone” e così si raccomandava ai suoi scudieri: “Uno si accoda all’altro, transitare lo cavalcone in fila longobarda! E non temete, lo cavalcone lo regge la mano di Dio!” e saltava e saltava e saltava ancora per dare l’esempio a tutti. Solo che poi lo sappiamo com’è andata a finire…

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