E’ presto per scolpire nel marmo l’entrata del Movimento Cinque Stelle nel percorso riformatore avviato da Matteo Renzi, ma certo da ieri l’anima dialogante dei grillini sembra aver preso corpo. L’incontro in streaming tra la delegazione del Pd, guidata dal premier, e quella dei pentastellati, conferma l’astro nascente Luigi Di Maio e permette a Renzi di lasciarsi subito alle spalle le frustrazioni europee per la mancata nomina di Federica Mogherini alla guida della politica estera europea. E ciò nonostante un velenoso colpo di coda tutto «made in Germany”: «Enrico Letta aveva buone chance, ma Renzi non lo ha proposto», ha fatto sapere Elmar Brok (Cdu), presidente della Commissione Esteri del Parlamento europeo nonché consigliere di Angela Merkel.
Il premier non ha replicato e ha preferito tornare sul terreno che predilige, quello della mediazione a tutto campo, rilanciando un dialogo con i grillini che sembra andare ben oltre la sola riforma della legge elettorale. «Eppur si parlano», si potrebbe dire.
Niente di concreto, ancora, ma il disgelo è avviato. I grillini hanno rilanciato su preferenze e doppio turno di lista; il Pd ha concesso una mezza apertura sul ballottaggio fra liste ma resta vago sul nodo preferenze: «noi non pensiamo che la preferenza sia lo strumento della democrazia ma tra averla e non averla preferiamo averla», ha detto Renzi spiegando che però bisogna trovare un compromesso con gli altri partiti che hanno sostenuto l’Italicum.
Ma al di là dei tecnicismi e delle assicurazioni che lo schema di riforma pentastellato sarà esaminato con attenzione, Renzi di fatto ha aperto un nuovo forno nel cantiere riformatore. I tempi infatti stringono e lunedì comincerà una settimana di fuoco: inizieranno le votazioni in aula sulla riforma del Senato e, soprattutto, potrebbe arrivare la temutissima - sia dal Pd che da Forza Italia - sentenza Ruby. Il partito di Berlusconi per ora sembra reggere, ma l’impressione è che le tensioni interne siano solo congelate per non aggravare l’umore del Cavaliere. Il quale, comunque, continua a garantire la tenuta del patto del Nazareno lanciando però un warning” secco: niente preferenze o salta tutto.
A rendere più complicata questa seconda metà di luglio ci si mettono i diversi provvedimenti in scadenza. E sono tutti decreti “pesanti” che si contendono l’attenzione del Parlamento e l’approdo in Aula tanto quanto il ddl di riforma. Entro luglio ci sono da convertire in legge la riforma della Pubblica amministrazione, il Dl competitività, quello sulle delega fiscale e lo sblocca Italia, sono per citarne alcuni. Un ingorgo parlamentare che preoccupa Quirinale e palazzo Chigi e che rende ancora più manifesta la necessità di porre rimedio con le riforme ad un sistema legislativo perennemente in affanno. Che sviluppo e riforme vadano a braccetto lo ha confermato l ministro Pier Carlo Padoan. «Per la crescita non esistono scorciatoie», ha spiegato. La Ue e il Governo indicano 3 pilastri: più apertura di mercato, riforme strutturali, più investimenti. La situazione resta seria tanto che anche dal Pd c’è chi lancia l’allarme: servirà una legge di stabilità da 23 miliardi, profetizza Stefano Fassina. E Padoan in serata è dovuto tornare a smentire che ci sia bisogno di una manovra correttiva.
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