Como riparte dai Pagliacci. Non è uno scherzo, nessuna ironia. La questione è seria, perché quello che abbiamo visto nelle ultime ore - all’Arena del Teatro Sociale - smonta tutta una serie di luoghi comuni e frasi fatte che hanno tenuto banco per decenni. Certo, il merito non è solo dell’opera scelta per aprire il festival “Como città della musica”, ma questo evento diventa un simbolo, uno spartiacque, un punto fermo in un dibattito trito e ritrito. Quante volte abbiamo sentito il ritornello della città che non sa fare squadra, allergica alle novità, difficile da coinvolgere, pronta a massacrare chiunque osi alzare la testa, uscire dalla routine e lanciare un’idea. Ecco, lo spettacolo del Sociale in un certo senso spazza via tutte queste considerazioni. Le demolisce, le svuota di senso (ammesso che ne abbiano mai avuto). Sì, perché ancora una volta - era già successo due anni fa con i Carmina Burana e l’anno scorso con la Cavalleria Rusticana - i comaschi hanno risposto alla grande. Tre indizi fanno una prova schiacciante.
A Como si respira un’aria nuova, si può fare cultura senza prendere schiaffoni a destra e a manca, i cittadini rispondono e partecipano con entusiasmo.
Quasi una città normale, ironizza qualcuno. Vero ma non del tutto, perché poche realtà possono contare su un connubio come il nostro tra cultura, storia e paesaggio. Quello che finora mancava, e in questo senso sì siamo diventati come gli altri, era la consapevolezza di questo patrimonio, il desiderio di viverlo e valorizzarlo.
Un miracolo? Una svolta improvvisa? No. Il merito è delle persone che ci hanno creduto, si sono tappate le orecchie di fronte ai primi mugugni, hanno messo da parte gelosie e invidie provando a mettere insieme un gruppo pronto a remare nella stessa direzione. Il Teatro Sociale ha fatto da apripista, trascinando tante altre realtà - piccole e piccolissime - che non hanno avuto paura di sfidare il mare aperto. I primi riscontri sono stati positivi e da lì si è innescato un circolo virtuoso. Scomparsa la paura, vinta la storica ritrosia, è stato tutto un fiorire di eventi e iniziative.
Anche grazie - va detto - ad alcuni giovani decisi più che mai a “fare qualcosa di buono” per la città. Le risorse da investire sono poche ma quanto accaduto in questi mesi dimostra che i risultati possono arrivare lo stesso.
Certo un’iniezione di liquidità permetterebbe di fare ancora meglio. In questo senso la ciliegina sulla torta, e che ciliegina, sarebbe la nomina a “capitale italiana della cultura”, titolo che consentirebbe a Como di incassare un milione di euro per realizzare i progetti presentati al ministero in accordo con le amministrazioni di Cernobbio e Brunate. Superata la prima selezione, resta la concorrenza di nove città e non sarà facile spuntarla (i posti in palio sono due: uno per il 2016 e l’altro per il 2017). Entrambi i verdetti arriveranno entro fine anno, il nuovo dossier va consegnato al più tardi il 15 settembre. Non partiamo battuti.
Tutto rose e fiori? Non proprio. Resta un cruccio, quando si parla del binomio Como-cultura. L’università, il Politecnico in particolare, non sembra più trovare terreno fertile nella nostra città.
Si è rotto qualcosa, mentre in passato i rapporti più burrascosi erano quelli con l’Insubria. Il polo comasco ha perso corsi di laurea e adesso resta nel limbo, in attesa di un confronto con gli enti pubblici (Fondazione Volta ma non solo). Anche questa è una cosa seria, serissima. Con tutto il rispetto per i Pagliacci.
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