E lo streaming? E la diretta on line su ogni cosa avvenisse sulle terre emerse? E la trasparenza assoluta? E la rete come specchio infrangibile del più meraviglioso dei mondi possibili nel quale tutti parlano, tutti contano, tutti decidono? E l’uno vale uno? E le primarie? E le quirilinarie? Dove sono finiti questi miti degni dell’Ellade che democraticamente democratizzano la democrazia? La democrazia duepuntozero, la democrazia altera e severa e austera, virginale di purissima e incorrotta illibatezza? Che fine ha fatto tutta questa cosmogonia sognante e flautata? Ogni tanto uno si volta, ma non la trova. Ossi di seppia. Conchiglie scheggiate sulla battigia della memoria che, portate all’orecchio, regalano brusii lontani delle mareggiate comizianti nelle quali si tratteggiava un futuro tutto diverso rispetto alla poltiglia indecente nella quale siamo immersi dai secoli dei secoli.
E così, sono bastati alcuni piccoli giorni, giusto il tempo di passare dal trionfo elettorale - indiscutibile e, tutto sommato, meritatissimo – all’ingresso fisico nel salone del re per veder andare in frantumi tutta la retorica nuovista che ha fatto le fortune dei Cinquestelle. Era ovvio. Era scontato. Era matematico. Ma che sia accaduto nel giro di poche ore ci conferma, con una punta di amarezza, quanto ormai si sia vecchi del mestiere, perché troppe se ne sono viste e riviste per farsi infatuare dalle chiacchiere da bar, nel migliore dei casi, o dalla demagogia piazzaiola, nel peggiore, e quanto le lezioni della storia non vadano mai perse, perché la ciclicità della parabola dei movimenti, dallo stato nascente all’apogeo fino alla maturazione e all’esaurimento, è sempre la stessa.
Le trattative estenuanti per la formazione della giunta Raggi a Roma, con tutto il contorno sapido e in qualche caso sanguinoso di killeraggi incrociati tra le varie correnti del movimento – quello che è contro quell’altro, uno che lo dice ma non lo pensa, un altro che lo pensa ma non lo dice, il direttorio che vuole così, il raggio magico che vuole cosà, l’analisi lobotomica sulla purezza della razza dei candidati assessori, le trombature, le pugnalate alla schiena, il gran frullare di parenti, amici, amichetti, consigliori, servi e salmerie al seguito – insomma, tutto il circo Togni che contraddistingue il gorgogliare della politica quando sistema le pulegge del comando, è avvenuto anche in questo caso. Tutto uguale. Tutto come prima. Tutto come sempre. Soprattutto, tutto come gli altri.
Ma come? Non si sarebbe dovuto fare ogni cosa alla luce del sole, anzi allo specchio abbacinante del web? Chi ha rubato le assessorarie, le capodigabinettarie, le vicesindacarie? Chi ha sottratto l’agorà digitale, lo speaker’s corner grillino, la trasparenza totale, anzi il totalitarismo della trasparenza, il grande fratello globale che controlla tutti gli eletti e li pone sotto l’occhio vigile degli elettori, che in ogni momento ne possono controllare operato, fattezze e profilo etico-morale? Che ne è stato della nuova filosofia di vita capace di smontare le lobby, la relazioni pelose, le camarille, le caste, le aderenze, i conflitti di interesse, insomma, tutto il peggio della politica politicante e politicata di cui sono marci esemplari destra e sinistra?
Tutto sparito. Tutto quello su cui si sono tanto infervorati i nuovissimi si è rivelato per quello che era. Ragazzate da terza C. Velleitarismi da universitari. Rivisitazioni della logorrea sociologica dei rivoluzionari sessantottardi quando organizzavano il mondo nuovo dalla villa al Forte pagata dal paparino. Fuffa scamiciata. Che infatti si è sciolta come neve al sole appena quella generazione di fenomeni ha raggiunto – traghettando tra mille partiti e mille filiere - quello che avevano sempre bollato come cloaca massima. Il potere.
E quindi la faticosa gestazione della giunta Raggi è solo un bene. Ma non per i nemici e i detrattori di un movimento che rappresenta – detto davvero senza alcuna ironia - la più clamorosa e interessante novità della politica italiana degli ultimi dieci anni, ma soprattutto per lui. Perché giocare ai liceali, ai ragazzini, è bello, fa bene allo spirito e fa anche sentire molto giovani. Ma poi si cresce. Si diventa grandi. E si è un po’ obbligati a capire come va il mondo e quali sono le sue coordinate, quali sono le vere, turgide pulsioni che lo sostengono e lo qualificano, quali gli interessi che lo sostengono, quali le dinamiche sociali e psicologiche che avvengono dentro un gruppo di persone e che sfociano sempre nell’emersione di una leadership. Altro che uno vale uno.
È il pane duro della politica. E della vita adulta. E questo è un valore, non il suo contrario, perché la trasparenza assoluta non solo non esiste, ma è anche una fola da politici bambini. La mediazione tra interessi è una cosa riservata a pochi, così come il momento delle decisioni. E’ la sua natura. E questo in qualsiasi epoca, in qualsiasi paese, in qualsiasi ambito sociale o professionale. La stanza dei bottoni è un luogo per élite, questa è la verità, che piaccia o no, e l’unica cosa che resta ai cittadini, agli altri, a noi, è la volontà, l’intelligenza, la preparazione e qualche strumento per poterla controllare in modo serio e poterla giudicare al momento del voto. Il resto, compreso l’uso abnorme dell’istituto referendario, è ciarpame.
I Cinquestelle facciano valere la loro diversità nella scelta di uomini migliori, più leali e più preparati, nel disegno di un programma ventennale serio e coraggioso per l’Italia, non certo nella retorica dell’onestismo – che faceva già sorridere con Berlinguer trent’anni fa, figurarsi con Di Battista oggi – o della superiorità antropologica rispetto agli altri, che rappresenta un altro muro sul quale sono già andati a sbattere il Pci prima e la Lega poi. Anche se a vedere le ultime mosse di Di Maio - una macchina da potere da far impallidire pure Renzi - mi sa che abbiamo già capito come andrà a finire…
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