Il campione è anche
un uomo indifeso

Le notizie, quando fanno il loro botto mediatico, sembrano segnare destini di fallimento, dai quali poi è impossibile rialzarsi. O se ci si riesce, lo si fa con estrema e lancinante fatica. I protagonisti piombano poi in un silenzio e in un isolamento che diventa pericoloso, fuorviante, che trascina la propria anima e il proprio sentire in un baratro nero. Su di loro resta incisa una macchia che diventa impossibile cancellare.

Eppure da questo silenzio e da questo isolamento è possibile uscire, anche attraverso il semplice uso del Web, mandando messaggi che sembrano una sorta di Sos, una richiesta d’aiuto, ma anche di quella forma di solidarietà alla quale tutti hanno diritto, soprattutto chi ha sbagliato. O comunque ha dovuto sottostare alle regole di un mondo, quello sportivo ad esempio, che è molto cambiato in questi anni, dimostrando spesso e in molte occasioni il suo pungente ed efferato cinismo.È questo che ci racconta la storia del giovane ciclista Mauro Santambrogio, ventinove anni, promessa del ciclismo italiano, che di punto in bianco si trova squalificato dal Giro d’Italia, per doping. Non entriamo nel merito della questione, che qui non è al centro della discussione. Non ci interessa se la sospensione di Santambrogio sia stata lecita, se quelle analisi cui è stato sottoposto dicano il vero. Qui è il dramma umano che emerge, un dramma così profondo, da far pensare al giovane ciclista ad un “addio al mondo”, un pensiero che si è trasformato in un grido d’aiuto e che ha trovato su Twitter una risposta calda e solidale, un segno di vicinanza sincera che ha permesso di non far arrivare il giovane ciclista a tragiche conseguenze. Santambrogio ha visto uno spiraglio di luce, quello che gli serve per rimettere ordine nei pezzi incerti e frantumati della sua vita, avviata ad un futuro di sicuro successo. Quando la serenità si è rotta, quando la squalifica è arrivata è come se quel futuro si fosse riempito di ombre e di fantasmi, lasciando una giovinezza sospesa sul filo dell’incertezza, sull’impossibilità di sapere se potrà e quando ritornare a pedalare lungo le strade del lago, come fosse “il dio di Roserio” testoriano. Il vuoto si è fatto più profondo, la speranza sempre più labile, il dramma silenzioso fino ad emergere in una notte di disperazione.

Pantani non aveva saputo reggere a quella solitudine e a quella disperazione. Se ne è andato da solo, in un albergo sulla riviera romagnola, anche lui inghiottito da quella spirale di cinismo che caratterizza sempre di più il carattere dell’ambiente sportivo, con il paradosso di mettere a repentaglio salute e credibilità degli sportivi, di coloro che si giocano la faccia, ma anche la vita, quando vengono travolti dagli scandali, quando si ritrovano soli, disperati, senza una via d’uscita. Questa storia ci racconta ancora una volta la solitudine terribile dell’abbandono, dell’essere lasciati in balia di se stessi e del proprio dolore, della propria incertezza e della fragilità umana. Questo non è giusto e il coro di solidarietà che è arrivato dalla Rete dimostra quanto fittizia può essere la giustizia sportiva. E non solo. Tutti possono commettere errori e, se errore c’è stato anche nel caso di Santambrogio, questo ha avuto anche persone che lo hanno sostenuto. Il prezzo più alto però lo paga sempre lui, il Campione. È lui a subirne l’onta più grande, perché in quelle gare ha giocato la sua faccia sudata, le ore e ore di allenamento, lo sforzo dei muscoli. E il Campione, prima di essere tale è un uomo, più che mai indifeso, nel momento dell’apparente “sconfitta”, un uomo che non può essere lasciato solo, ma che ha bisogno di ritrovare il coraggio della sua dignità e la possibilità di continuare a sognare le tante sfide ancora da giocare in sella alla sua bicicletta.

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