C’è una ricetta segreta per trovare una notizia vera in un giornale: basta andare a pagina 57, generalmente in basso o meglio ancora nella colonna delle brevi. La si guarda di sfuggita, generalmente senza capirla, soprattutto se lo fa uno del mestiere, tutto preso dai chilotoni di fregnacce su onorevoli, grandi manager, batraci, sopracciò e quaquaraquà e dalle altre cronache di regime con le quali affolliamo le nostre pagine zeppe di refusi e sgrammaticature, un attimo prima di andare a sdottoreggiare sui destini della libera informazione alla macchinetta del caffè. Poi, però, quella stessa notizia ci torna in mente anche un paio di settimane dopo, in tutta la sua purezza adamantina e nella sua abbagliante semplicità: ecco una cosa che sarebbe stato bello leggere.
E allora eccoci qui. Gerd Müller non ricorda più i suoi gol. Il più formidabile, feroce, spietato centravanti degli anni Sessanta e Settanta, il fenomeno del Bayern di Monaco, capace di segnare 365 reti in 427 partite di Bundesliga, 730 su 787 in carriera, il bomber che ha vinto quattro campionati tedeschi, tre coppe dei campioni consecutive, tutti gli altri trofei a raffica, un mondiale, un europeo e pure un Pallone d’oro, ha il morbo di Alzheimer. E la malattia, secondo le parole di quell’uomo meraviglioso che è Karl-Heinz Rummenigge, ieri campione e oggi alto dirigente della squadra bavarese, è in uno stadio molto avanzato.
Ora, purtroppo, la notizia in sé non è una gran cosa. La pratica è diffusa. Le persone colpite da questa malattia sono milioni ogni anno e non è quindi il valore sportivo o la notorietà del personaggio a segnarne lo status, la differenza. Certo, per tutti i ragazzi nati prima della metà degli anni Sessanta assume un valore speciale, visto che quella punta atipica, prototipo dell’attaccante sgraziato reso imbattibile da un istinto vampiresco per il gol - Paolo Rossi e Inzaghi gli epigoni nostrani più attinenti - fa parte di un diffusissimo immaginario collettivo. Perché quello era uno che segnava sempre. Segnava e segnava e segnava. Raramente palle di grande fattura – alla Van Basten o alla Ibrahimovic, tanto per dire – ma sempre e inesorabilmente dentro la rete. Una belva. Un demonio. Un titano. Un accumulatore seriale. Uno talmente rapido che una volta, mentre la Rai stava facendo vedere il replay di un’azione della squadra avversaria, aveva già ribaltato il fronte e tirato in porta: un gol che nessuno ha mai visto. E non c’era verso di impedirglielo, tanto è vero che anche nella notte più epica della storia del calcio italiano - la partita del secolo: Italia-Germania 4-3 – riuscì comunque a far impazzire la difesa più forte del mondo e segnare due volte. Non bastò comunque, per fortuna, ma per anni il suo incubo ha visitato le notti di Burgnich, Facchetti, Cera e Rosato.
E non c’entra neppure la drammatica scaletta della sua vita dopo il ritiro, condita di solitudine, di scelte sbagliate, il divorzio, l’alcolismo, la depressione, nonostante il Bayern lo abbia riaccolto tra le sue fila come dirigente e come allenatore delle giovanili, distinguendosi per l’ennesima volta come club esemplare anche da un punto di vista umano (vero cialtroni traffichini del nostro calcio straccione?). Un film visto troppe volte. Il grande atleta piccolo uomo. Il ragazzo mai cresciuto. L’alieno fuori dal rettangolo di gioco e dalle dinamiche dello spogliatoio. L’inadeguato. Il disadattato. Il fallito.
Müller era l’uomo che sapeva solo segnare. Niente altro. Solo quello. E l’emozione più bruciante, quella che rende quella notiziola una grande notizia, è che la malattia lo ha via via privato di tutto quello che aveva: la coscienza dell’unica cosa che era mai stato capace di fare. Segnare. Chissà quando è scomparso dalla sua memoria il primo gol, chissà quali sono quelli che ha difeso con le unghie fino all’ultimo. Forse quello in finale con l’Olanda - la magnifica Olanda, l’inarrivabile Olanda, la squadra più importante e rivoluzionaria del dopoguerra - affondata in rimonta grazie a un suo diagonale ai limiti dell’area piccola, naturalmente, o forse quello in finale di coppa campioni con il Leeds o i due contro l’Atletico Madrid, oppure quelli da ragazzo, quando insaccava a mitraglia, ma chissà quale, quello fatto davanti agli occhi di papà o della fidanzatina o dell’amico del cuore o di chissà chi altri.
È vero che rimarranno nella memoria di tutti quelli che amano il calcio e che hanno visto coincidere la loro giovinezza con il suo apogeo - l’amore per il Bayern e per la Germania Ovest nasce da lì - e che lui resterà nella storia dello sport per sempre. Ma non è questo il punto. Il punto è che quella malattia, la più crudele, la più schifosa, lo sta privando di se stesso. E gli altri di lui. Un armadio saccheggiato. Un guscio vuoto. Un computer resettato. Quanti ne conosciamo, di questi ossi di seppia? Quante persone, che non sono nessuno a confronto del fuoriclasse ma che sono tanto o tutto per noi, o almeno lo sono stati, si sono dimenticate di sé? E anche di te e ti sembra impossibile: ma come fai a non riconoscermi più? Come fai? Ma che ti è preso, maledetto te? La memoria svanisce e tutto trascina nel suo precipitare: emozioni, ricordi, paure, segreti, lacrime, rancori, legami. Tutta un’esistenza in briciole, senza motivo. Come se non ci fosse mai stata, come non fosse mai esistita. Forse una metafora: polvere alla polvere.
Borges scriveva che la dimenticanza è l’unica vendetta e l’unico perdono. Ma quella è la dimenticanza degli altri. La dimenticanza di sé contiene qualcosa di ingiusto, di inaccettabile, di intollerabile. Fra pochi giorni Müller compirà settant’anni. L’unico regalo che vorremmo fargli è che possa ancora ricordare almeno una piccola cosa: lui bambino che torna a casa con il pallone sotto il braccio dopo la sua prima partita e dopo il suo primo gol, un attimo prima di naufragare nel nulla e sparire come uno spettro al canto del gallo. Buon compleanno, campione.
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