Dicono che da adesso nulla sarà più come prima. E che la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali rivoluzionerà per sempre il nostro concetto di spazio e di tempo.
Dicono anche che ora abbiamo davanti agli occhi l’immagine - di per sé letteraria, sorprendente - di un universo che si piega e si torce e si increspa come l’acqua di uno stagno carezzato dal vento e che quelle infinite, microscopiche onde si propagano lungo i secoli e i millenni fino agli interminati confini dell’universo. E dicono, infine, che tutto questo, per la prima volta, può essere ascoltato. Ora, grazie a strumenti fantascientifici e perfettissimi, potremo percepire il suono, il rumore, il brusio del creato e quindi cogliere gli sfrigolii del tessuto cosmico, i lamenti della materia e dell’antimateria, i messaggi lanciati attraverso quel tappeto sonoro milioni di anni prima da buchi neri collassati, dalle masse interstellari, dai moti delle galassie perdute e da quelle miriadi di creature celesti un po’ mitologiche delle quali noi popolo bue non sappiamo un bel niente.
Se non che ora - questo il messaggio pedagogico che pare sgorgare da chi sta riflettendo sulla cornice filosofica e teologica di un evento che sancisce, cento anni dopo, la grandezza dell’intuizione di Einstein - possiamo e dobbiamo fermarci e metterci in ascolto della voce dell’universo.
Immagine magnifica e fascinosa assai, in effetti, come una sorta di ultimo treno, di ultima chiamata, di ultima chance per un’umanità stanca, involuta, noiosa e ottusamente ipertecnologizzata di dismettere le abitudini, i luoghi comuni, le cecità e le piccinerie quotidiane e imparare invece la lezione del cosmo. Guardare. Osservare. Riflettere. Sentire, appunto, la misteriosa armonia degli elementi, ben consci che quello che è stato captato, visto e sentito dagli scienziati qualche giorno fa è il prodotto di una fusione di due buchi neri avvenuta – e qui per poco il cuore non si spaura - un miliardo e mezzo di anni fa. Un miliardo e mezzo.
Pensate un attimo al significato di un miliardo e mezzo di anni e a quello di venire a conoscere adesso, nel febbraio 2016, una cosa accaduta un miliardo e mezzo di anni fa. C’è da andare fuori di testa. Qui c’è dentro tutto. Le domande ultime. L’abisso dell’esistenza. La ricerca di un suo senso. Lo stupore di fronte all’inconoscibile ma anche – ne scriveva ieri Antonio Socci in un pezzo colto e appassionato su “Libero” – la prova provata della presenza di Dio. Perché un universo governato da una ferrea razionalità matematica non può che essere prodotto da un essere intelligente: è questa la certezza razionale della verità della fede.
Il livello del dibattito è altissimo. Ma, come spesso accade, forse confida troppo negli esseri umani. Segno che non li conosce abbastanza. Non bisogna mai aspettarsi niente dagli esseri umani, perché loro sono destinati a deluderti. Certo, è bello, come ha scritto un ispirato Antonio Scurati su “La Stampa”, appellarsi a uno scatto d’orgoglio di noi bipedi ottusi e fanfaroni che ci porti oltre la stucchevole litania delle bollette da pagare, del reflusso gastrico, delle lamentele contro il capo che ce l’ha con me e lo Stato che ci abbandonato, del raglio dell’asino che canta a Sanremo e del tifoso medio che suda, sbraca e ulula davanti alla tv (a proposito, com’è finita Juve-Napoli?). Un uomo che cerchi finalmente di mettersi in sintonia con le onde gravitazionali - ora che sa che esistono, ora che può ascoltarle - e che cerchi il suo posto nel cosmo.
Ma non è così che funziona, da queste parti. E non è così che funziona da sempre, non solo e soltanto in questi tempi bui e mediocrissimi. L’uomo non ascolta. Non ascolta per natura. Il cielo è lì che lo guarda e lo osserva e gli parla con parole silenziose ma intelleggibili dal primo giorno, dall’origine dei tempi, lui e le sue stelle, le sue nubi gonfie di premonizioni, le sue lune malinconiche e indifferenti. Ma l’uomo non ascolta. Inebetito davanti a uno smartphone o davanti a una clava, non fa differenza, ma sempre e comunque ripiegato su se stesso, sul suo microscopico particulare, così preso ad avvoltolarsi nelle sue facezie, nelle sue nequizie, nelle sue tristezze, nelle sue pochezze da non farcela davvero a tirare su il testone per più di un nanosecondo. Vede il cantante disabile suonare il piano come un dio all’Ariston e si commuove e piange lacrime dolcissime e si esalta e si fa travolgere da un’ondata di emozione prima e da una colata di retorica e melassa poi e però, dopo, si infila a letto tutto placido e satollo e già il giorno successivo se ne sbatte altamente di tutti i disabili che non sanno cantare e che non riescono a salire manco sul bus e di tutti gli altri diseredati sparsi nel globo terracqueo. Anche questa pratica è stata archiviata.
Quanto durano i nostri grandi valori? Quanto i nostri sguardi solidali? Quanto le nostre condivisioni del poco o tanto che abbiamo con gli altri? Quanto le nostre riflessioni sul mistero dell’universo e del suo architetto? E se ci mettiamo ad ascoltarlo non facciamo forse la fine del Palomar di Italo Calvino quando, di notte in una spiaggia, si mette a cercare le stelle? Accende la pila, la spegne, consulta mappe astronomiche, si affanna sulla via Lattea, tenta di individuare le costellazioni, ma poi si confonde e si intristisce perché non ci capisce nulla, si contorce guardando a nord e a sud e non si accorge che gli altri - l’umanità che dovrebbe capirlo e condividere con lui questa ricerca fondamentale - lo guardano interdetti e sorvegliano le sue mosse come le convulsioni di un demente.
Deve essere un creatore buontempone quello che ha escogitato questa pièce per far arrivare un messaggio di un miliardo di anni prima a un’umanità che, nel giro di ventiquattro ore, passato il brivido dello scoop in prima serata, si sta già concentrando sulla prossima puntata di Masterchef. Mi sa che c’è qualcosa da aggiustare. Magari fra un miliardo di anni andrà meglio.
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