La notizia, essenziale, è questa: alcune decine di comaschi hanno scelto di offrire una parte più o meno sostanziosa dei loro risparmi, in proporzione alle loro possibilità, per il restauro del “castello” delle campane del Duomo, danneggiato e pericolante.
Sono stati raccolti circa sessantamila euro, quanto era stato preventivato per sistemare, riaccordare, fondere, consolidare e restituire ai comaschi le voci del “castello”, che consta di quattro campane (una è del 1448) più la campana civica da 19 quintali. Non è retorico affermare che quei bronzi hanno segnato, rintoccato secoli di storia, di guerre, conquiste, liberazioni, dall’altro della torre civica che da seicento anni armonizza e fonde - è il caso di dirlo - la Como civica con quella religiosa.
Ora, la notizia non sta tanto nella cifra raccolta, che pure non è affatto trascurabile, o nel numero di quanti hanno contribuito a questa raccolta. Né sta a ribadire, come se ce ne fosse ancora bisogno, che i comaschi il loro cuore ce l’hanno, e generoso, sotto uno strato – superficiale - di brontolii e lamentele.
Piuttosto, la notizia della piccola mobilitazione e del risultato raggiunto consolida una volta di più il legame profondo, indissolubile, che unisce i comaschi al loro Duomo. Un’opera d’arte che, ricordava bene qualche giorno fa Giuliano Collina su questo giornale, è un unicum. Un insieme armonioso di stili diversi, un libro aperto di storia dell’arte, testimonianza di gotico, rinascimentale e barocco che poggiano su una base romanica.
Ma per i comaschi il Duomo non è solo storia dell’arte. E’ la loro, la nostra stessa storia. E’ il nostro simbolo. Non per nulla, caso più unico che raro, ospita tra Cristo, Madonna e Santi, le statue di due pagani, i Plinii, che da massime glorie cittadine meritavano di stare lì, sulla facciata, e non altrove. A rileggere la storia della Cattedrale, si resta stupiti da quanto i comaschi investirono in quest’opera ciclopica, per concezione, costi e dimensioni. Per il Duomo vollero essere al passo con i tempi, vollero sempre il “top”, diremmo oggi. Ebbero l’ardire di osare e hanno avuto ragione. Si è partiti con il gotico, che nel 1396 era d’obbligo. Ma già la facciata mostra l’evoluzione dei tempi, con le statue dei Rodari (quelli li avevamo già in casa...) e un disegno che già non è più gotico. E poi l’interno, l’abside rinascimentale, in un’unione azzardata e geniale allo stesso tempo, che mantiene le proporzioni con pilastri gotici da un lato e volti al nuovo stile dall’altro. E quando nel ‘700 si decise di alzare la cupola, e che cupola, non si diede l’incarico al primo venuto, ma i comaschi scelsero l’”archistar” del momento, Filippo Juvara, l’architetto di casa Savoia, il progettista di regge e basiliche reali. Senza badare a spese.
Anche la storia più recente è segnata da esempi di attaccamento al Duomo. Lo smontaggio e il rimontaggio della facciata che negli anni Trenta rischiava di cadere, ad esempio. O la ricostruzione della cupola distrutta dal famoso incendio del 1936, mirabilmente raccontata da Carlo Emilio Gadda. O, ancora, la ricostruzione del gugliotto danneggiato da un fulmine il 2 novembre 1990. Evento negativo che fu però il motore di un’opera di restauro globale, che interessò la facciata e gli interni ed è arrivata fino ai giorni nostri.
Di fronte a tutto questo, le campane appaiono forse poca cosa. Ma il perpetuare questa attenzione, questo amore verso il Duomo non può che farci bene. Ricorda quello che siamo stati, quello che abbiamo voluto, quello che abbiamo raggiunto. Anche quello che potremmo fare. Ancora adesso. Pensiamoci, ad ogni rintocco.
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