Roberto Benigni rappresenta – assieme a Daria Bignardi, la difesa a tre e il maggioritario all’italiana – uno dei più clamorosi bluff della nostra repubblica delle banane.
Non c’è quindi niente di scandaloso nel suo appoggio al “sì” nel referendum costituzionale ed è davvero spassoso vedere ora tutto il variegato ceto doppiomoralista, perbenista e antropologicamente superiore strapparsi le vesti per il tradimento di chi è sempre stato dipinto come il vate, il fauno della sinistra dura e pura. Che schiaffo. Benigni, il grande poeta di un’Italietta che non lo merita, il clown saggio che sbugiarda i potenti e dice sempre la verità, la maschera ilare e dolorosa che ama i bimbi e le vecchiette e, soprattutto, il vero, unico e insostituibile leader antisistema metafora di quell’Italia umiliata e offesa dai padroni del vapore, voterà a favore dell’infame Renzi e del suo progetto autoritario. Crisi di nervi nelle migliori terrazze della gente che piace.
C’è sempre qualcosa di toccante, anche se di velleitario, nell’artista che si mette in gioco per una causa (quale che sia e aldilà delle stupidaggini che combinano gli intellettuali quando la buttano in politica), accettando di farsi carico delle proprie responsabilità e di mettere nel conto anche le conseguenze di una sconfitta. Benigni invece non appartiene a quella schiatta, quella dei liberi e forti, quanto a quella degli astuti che, qualsiasi cosa succeda e chiunque comandi, alla fine uno strapuntino lo rimediano sempre. Proprio come dimostra la sua fulgida carriera cinematografica e televisiva, che non sembra testimoniare vessazioni censorie o esili volontari lontano da un regime che tarpa la libertà di espressione.
Benigni fa parte del sistema. E ci è dentro mani e piedi, questa è la verità. Quindi, la vera distinzione che bisognerebbe fare non è tanto fra il “sì” e il “no” quanto invece tra chi combatte sul serio il dolciastro politicamente corretto di questi anni senza dignità e chi fa la fronda e l’enfant terrible e il guascone dalla battuta spiccia, ma poi il ventisette del mese passa a prendere lo stipendio da quel fesso di Pantalone. Benigni fa parte del sistema perché fa l’italiano. Fare l’italiano è la parte che gli riesce meglio. Anzi, probabilmente fare l’italiano è l’unica parte che sia capace di recitare e che porta in scena in mille variazioni sempre riconducibili alla stessa unica radice.
Una specie di rivisitazione da sinistra dell’eterno familista amorale parademocristiano e qualunquista immortalato nei personaggi di Sordi. Insomma, due facce della stessa medaglia. Spassose, ma tristissime. Pensateci bene. Benigni che prende in braccio Berlinguer quando il Pci rappresentava l’unico motore immobile della cultura italiana, Benigni che prende in braccio Pippo Baudo quando era la metafora dell’eternità democristiana, Benigni che prende in braccio Clinton e Blair nuovi potenti della sinistra tecnocratica, Benigni che prende in braccio la Loren agli Oscar che mancavano solo gli spaghetti la pummarola e il mandolino, Benigni che prende in braccio Berlusconi e Renzi, Benigni che prende in braccio il primo potente che gli capiti a tiro, Benigni che corre e balla e suda e si scamicia e piroetta e fa il giullare e il bertoldo che con una battuta dovrebbe svelare tutta la meschinità del potere, ma intanto è lì e, insomma, già che c’è, si liscia e si struscia e si appallottola nelle sue calde pieghe – tra un Dante e una Costituzione più bella del mondo e un pedagogico “Pinocchio” (distribuito da Medusa, cioè da Berlusconi) – perché a fare l’opposizione vera si rischia di rimanere fuori, al freddo e al gelo.
E infatti, passa il tempo, cadono i governi, cambiano gli uomini, ma Benigni è sempre lì. Prova del suo talento, si dirà. Certo, che il talento non gli manca di sicuro – stiamo parlando di un comico di razza, di un grande comico, mica di un Pieraccioni o di un Panariello qualsiasi – ma forse anche della sua capacità di cavalcare l’onda da eccentrico, ma non troppo, così da risultare alla fine sempre all’interno del politicamente (e commercialmente) spendibile. Basta ripensare ai suoi film, fatto salvo lo stralunato “Daunbailò” di Jarmush, per averne la prova. Sempre che non si vogliano considerare “Tu mi turbi”, “Il piccolo diavolo”, “Il mostro” e “Johnny stecchino” dei prodotti eversivi e fieramente nemici del senso comune borghese e globalizzato quanto invece delle opere timide e, tutto sommato, conformiste. Anche se il trionfo del politicamente corretto Benigni lo ha raggiunto con “La vita è bella”, non a caso il punto di non ritorno della sua glorificazione planetaria. Eh sì, cosa di meglio di quella maschera burbera e ridanciana che nasconde un cuore grosso così e che gliela racconta lui al suo piccino l’apocalisse di Auschwitz come se fosse una fiaba e che volgarizza alla plebe i lager secondo Veltroni, tutti così pulitini e birichini e anche un po’ birbantelli, se vogliamo , ma vuoi mettere la potenza della metafora? E noi, popolo bue, giù a piangere per l’eroico martirio del papà cuorcontento senza neanche accorgerci di quel capolavoro di ironia ed emozioni di “Train de vie” di Mihaileanu e senza neanche capire che sulla Shoah o si ha il coraggio di fare un film spietatamente realista come “Arrivederci ragazzi” di Malle o si possiede il genio di Chaplin per cavalcare il puro grottesco, la pura iperbole de “Il grande dittatore”. Ma il problema è che Benigni non è Chaplin. E’ solo Benigni. Destinato quindi a rimanere in mezzo al guado, a rimestare per l’ennesima volta nel pentolone del cerchiobottismo tra l’intellettuale italiota (che vota “no” perché fa molto fino) e le candide lacrimucce delle casalinghe di Voghera (che invece votano “sì” perché glielo ha detto il marito).
E così l’unanimità è raggiunta, la carriera salva, il successo garantito, il governo del Nazareno bis già bello e pronto. Quanto scommettiamo che se vince il “no” entro sei mesi Benigni prende in braccio Brunetta?
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