Fascismo, antifascismo - e giornalismo - sempre più spesso sono sinonimi di cretinismo.
La grottesca vicenda del bagnino di Chioggia, diventato il protagonista di una bufera mediatica a causa dei cartelli inneggianti al regime disseminati nel lido di Punta Canna, la dice lunga sul livello del nostro dibattito culturale. Fuori c’è un mondo in fiamme, il mondo reale, quella cosa sconosciuta a noi del mestiere, e qui ci si accapiglia su una polemica di sorprendente freschezza: «Giù le mani dall’eroica pagina della resistenza!», «guai a chi abbassa la guardia!», «il popolo in armi contro i rigurgiti autoritari!», «si stava meglio quando si stava peggio!», «quando c’era lui caro lei!», «Mussolini ha due coglioni così!» (citazione di “Amarcord”, ndr), per concludere con l’inarrivabile “aridatece er puzzone!».
Siamo ancora al dopoguerra. E non può che essere così, visto che il nanismo delle nostre classi dirigenti e l’ideologismo di chi dovrebbe fare informazione impediscono di uscire dagli schemi consolidati da settant’anni di retorica resistenziale che hanno creato danni culturali che pagheranno i nostri pronipoti. Ora, l’onorevole Emanuele Fiano è davvero giustificato nella sua indignazione, considerata la tragica storia di una famiglia quasi interamente sterminata nelle camere a gas, ma la sua proposta di un nuovo articolo del codice penale che prevede fino a due anni di condanna a chiunque propagandi immagini o contenuti del partito fascista o del partito nazista è una mostruosità. È autoritaria. È illiberale. È liberticida. Processa le idee. E, soprattutto, non coglie l’aspetto fondamentale di tutta questa vicenda. E cioè il profilo macchiettistico, ridicolo, pagliaccesco del bagnino e di tutto il cosiddetto mondo dei nostalgici.
Il neofascismo italiano - al netto della componente terroristica negli anni di piombo, naturalmente, ma questo vale anche per quella comunista - non è mai uscito da una dimensione caricaturale, una roba da vecchi tromboni, da poveracci, da scappati di casa, da mentecatti, non a caso immortalata in tempi non sospetti - correva l’anno 1973, cioè in piena “guerra civile” italiana - da quel genio di Monicelli nello spassosissimo “Vogliamo i colonnelli”. In quel film capolavoro c’era già tutto. A meno di trent’anni dalla caduta del duce si vedeva di che pasta fossero fatti - e sono a maggior grado oggi - i rappresentanti di quell’ambiente: un codazzo di colonnelli rimbambiti, damazze in disarmo, intellettualoidi evoliani, ex paracadutisti analfabeti e politici occhiuti con il mito della destra alla greca. Ed è sempre stato così. Ed è così pure ora, con la cosiddetta apologia del fascismo che si risolve in una sorta di paccottiglia da mercatino, di avanzi da retrobottega tra labari, monetame, ordigni inesplosi, stivali di cartone, carrarmati di latta, insaporiti da certi personaggi da commedia dell’arte - c’è un ristoratore in centro a Milano che è uno spettacolo… - da certi sarchiaponi in camicia nera che se li incrociasse Tarantino ci tirerebbe fuori un cameo dei suoi. Un mondo di pagliacci. Un mondo che si sommerge con una risata.
Qui no. Qui invece di dire che il bagnino di Chioggia è un pirla, punto e basta, qui la faccenda diventa una questione di Stato. Uno scandalo. Un attentato alle istituzioni. E tutti giù a sbraitare, a sermoneggiare, a catoneggiare, a trombonare sulla democrazia in pericolo e giù fiamme, lava e lapilli di indignazione antifascista. E intanto, nel disinteresse cosmico di noi intelligentoni dei media - con le eccezioni di Mattia Feltri e Pierluigi Battista - l’Unesco si è permessa di dichiarare Hebron patrimonio dell’umanità palestinese e soltanto palestinese benché in quel luogo ci siano le tombe di Abramo, Isacco e Giacobbe, risoluzione che ne segue un’altra, sempre dell’Unesco, secondo la quale il Muro del Pianto sorge in un’area estranea alla cultura ebraica. E su questa cosa inaudita - questo sì un vero scandalo, una pulizia etnica degna dell’Isis, dei talebani - su questa vergogna a cielo aperto firmata dai cialtroni dell’Unesco non sono state dedicate manco dieci righe. No, tutti troppo impegnati a sdottoreggiare sul duce della spiaggia o a chiedere l’abbattimento dei monumenti costruiti durante il ventennio.
Perché anche questa si è dovuta sentire.
Ma non è un caso. La demonizzazione a tavolino del neofascismo è sempre servita per qualificare il partito comunista con la sinistra in genere come l’unico depositario della democrazia.
Se il fascismo è sempre vivo, ci sarà sempre bisogno di antifascismo e quindi ci sarà sempre bisogno della sinistra, l’unica antropologicamente superiore al resto del paese e l’unica degna della sua guida. E quindi tutto il mondo progressista ha occultato per fini politici la verità che il grande storico (liberale) Renzo De Felice aveva già scritto negli anni Sessanta. Il fascismo è morto nel 1945. Morto e sepolto. E non può tornare perché non esistono più le condizioni storiche, politiche, sociali ed economiche che hanno prodotto i totalitarismi a cavallo delle due guerre. Punto. Fine. Il resto è seria ricerca storiografica oppure pelosa demagogia stracciona che continua a far dondolare quello là appeso su per i piedi a piazzale Loreto un milione di anni fa solo per confermare il feroce aforisma di Flaiano: «Il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo».
Ps: Nell’ufficio del direttore de “La Provincia” c’è una bottiglia di Sangiovese di Predappio donato da un anziano signore con un Mussolini a cavallo sull’etichetta. Ogni tanto la guarda e sorride con amarezza riflettendo su che fine ridicola abbiano fatto gli ideali per i quali il suo nonno fascistissimo ha dato la vita e su che fine ridicola abbiano fatti gli ideali per i quali il suo papà comunistissimo ha contestato suo padre.
Nel caso qualche pm volesse inquisirlo o qualche Ordine dei giornalisti volesse espellerlo per apologia, sappia che la considererà una medaglia al merito.
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