Criticato ancor prima di essere presentato pubblicamente, il piano del lavoro di Matteo Renzi sembra partire con il passo giusto. La bozza divulgata ieri dal neo-segretario del Pd presenta, tuttavia, non pochi elementi positivi e di novità rispetto al recente passato. E’ da anni, infatti, che la politica italiana pone il lavoro al centro della agenda di Governo. Le ricette sin qui prospettate non sono però riuscite a porre neppure un minimo argine alla crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, e alla costante perdita di posti di lavoro praticamente in ogni settore produttivo. Poco o nulla ha sin qui funzionato rispetto ai tanti annunci di voler risolvere in tempi rapidi il problema lavoro. Non la soluzione muscolare del Governo Monti, ma neppure il pacchetto Letta-Giovannini, con un imponente piano di incentivi economici per le nuove assunzioni stabili, che si è rivelato un flop in assenza di un ripensamento complessivo dell’impianto della legge Fornero.
La novità della proposta di Renzi sta nell’aver compreso la lezione dei fallimenti dei suoi predecessori ribaltando la prospettiva. Il lavoro non si crea per legge o decreto, ma con la crescita e il sostegno alle imprese. Da qui, una prima serie di proposte, sui costi dell’energia e del lavoro, nonché l’individuazione di misure finalizzare a rilanciare settori tradizionali del nostro Paese , a anche a sostenere i settori emergenti, nonché a ridare efficienza alla Pubblica Amministrazione.
Già però si nota, rispetto ad alcuni iniziali annunci, che l’idea di un codice semplificato del lavoro non è più una caricatura della realtà tale da far pensare, in una primissima versione, alla possibilità di governare la complessità del mercato del lavoro con soli 40 articoli di legge. Superata è anche la proposta di comprimere il dinamismo e pluralismo dei modi di lavorare e produrre in un unico schema di lavoro.
Apprezzabili sono anche le proposte su una formazione orientata verso i fabbisogni professionali e formativi espressi realmente dal mondo del lavoro e non in chiave autoreferenziale come ancora troppo spesso avviene. Così come condivisibile, anche se onerosa e da dimostrare nella sua sostenibilità finanziaria, l’idea di un sussidio universale per chi perde il lavoro che deve tuttavia essere seriamente condizionato all’impegno di chi percepisce il denaro pubblico di cercare attivamente un nuovo lavoro anche attraverso la partecipazione a percorsi di formazione e riqualificazione professionale.
Tutto bene, allora, nel Job Act di Renzi? Difficile dirlo ora, anche perché la storia del nostro Paese mostra, non di rado, il tradimento delle buone intenzioni nella fase di attuazione. Se una perplessità può emergere è semmai quella verso l’idea di regolare per legge la rappresentanza sindacale. In una società aperta e pluralista compete alle sole parti sociali definire le linee della propria azione ed organizzazione senza che sia il Legislatore o un giudice dello Stato a indicare chi, nella dialettica intersindacale, debba prevalere. È nella forza di questa visione che si spiegano, del resto, sessant’anni di convinto astensionismo legislativo in un campo di libertà e autonomia sociale dove la politica, a ben vedere, ha davvero ben poco o nulla da dire.
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