Caro direttore,
l’ha appeso anche la mia mamma. A 83 anni è scesa in centro, ha scelto un lucchetto rosso e l’ha messo vicino agli altri quarantamila, grido colorato di una protesta seria, testimonianza cromatica di un desiderio che coincide con un diritto: rivedere il lago.
Non c’è comasco che non avverta quell’urgenza, che non cerchi un angolo di acqua ovunque si trovi, sul monte Croce o a Brunate, alla finestra di casa o allo stadio. Quando Gianni Brera arrivava al Sinigaglia, malediceva la tribuna stampa perché «lo spettacolo di quel panorama mi fa perdere le azioni della partita». Il fascino del primo bacino è unico al mondo. Far scomparire il lago da piazza Cavour - o ancora peggio mostrarlo tra le inferriate arrugginite di un cantiere degradato - è una dannazione per chi la compie. Come svegliarsi a Parigi e scoprire che la Tour Eiffel non è più lì. Come affacciarsi a Battery Park e non scorgere la statua della Libertà.
Como significa lago. E questo scempio che dura da otto anni sta provocando danni più seri di quanto immaginiamo.
Per i turisti l’abbinamento è indissolubile, loro non si pongono il problema.
E se non possono ammirarlo a Como, vanno a goderselo a Cernobbio, ad Argegno, a Bellagio, a Tremezzina, a Menaggio, a Varenna, a Domaso.
Così dentro il marchio “Como Lake” il rapporto di forza cambia: oggi il Lake conta più di Como. Oggi una città deturpata e stanca non può essere che al traino della sua scintillante periferia lambita dall’acqua.
Oggi non c’è politico che non paghi per la staccionata e le inutili paratie: ogni giorno che passa i partiti tradizionali a Como perdono un grammo della credibilità residua. Il centrodestra per aver inventato il problema, il centrosinistra per non averlo risolto. E la maledizione di quel presepe violentato accompagnerà la campagna elettorale.
Nessun candidato potrà dimenticarsi del lungolago, nella consapevolezza che nessun candidato potrà fare qualcosa per vederlo riapparire scintillante.
È il peggio che ci possa capitare: le responsabilità stanno qui, le soluzioni stanno altrove, su scrivanie distratte e lontane.
Qualche sociologo buontempone tempo fa teorizzò che il muro in fondo è un destino per un popolo chiuso fra i monti che circondano la convalle. È il quarto lato della piazza, tutti dentro e nessun contatto con l’esterno. Niente di più superficiale.
È la teoria di chi non ha mai preso la bicicletta lanciandosi a tuffo sulla Napoleona con l’unico scopo di arrivare, portato semplicemente dalla gravità, davanti al lago. Lo faceva Eddy Merckx nella classica delle foglie morte, lo facevamo da bambini noi che a Camerlata potevamo solo specchiarci nell’acqua della fontana.
L’ha appeso anche la mia mamma. Perché il lucchetto inventato da La Provincia ha un valore speciale, quello di invertire le priorità.
Da oggi l’obiettivo più importante non è guardare indietro, a ciò che fu, alla scoperta di Innocente Proverbio e del cane Pluto, alle responsabilità amministrative, ai passi giudiziari, ai balbettii progettuali.
Ma è guardare avanti, alla soluzione di un problema, al futuro che non può più aspettare.
Questo non è un lucchetto da chiudere, ma da aprire. Per far entrare l’ospite più amato, il lago.
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