Non è un bel momento per chi si occupa di pianificazione del territorio. Dopo i guai in Lunigiana, in Liguria o, senza andare lontano, a Brienno (con esiti per fortuna meno tragici), mezza Italia ha smesso i panni lisi del ct della Nazionale per indossare quelli dell'urbanista. Nei bar, tra sambuca stecca e scopone, è un allegro discettare di territorio, di orografia, bacini idrografici e bacini imbriferi.
In questo clima un po' plumbeo e a tratti apocalittico, a Como casca a fagiolo uno strano scontro tra enti pubblici sulla approvazione del nuovo piano di governo del territorio. Prima ancora di essere approvato, il cosiddetto Pgt del capoluogo (una volta si chiamava Prg, ma la sostanza è identica), incassa la bocciatura dell'Amministrazione provinciale, i cui tecnici, al pari di tutti noi, avevano capito, in base alle rassicurazioni del sindaco, che in realtà non si sarebbe più costruito per un pezzo. E invece no.
Calibrando con un po' di mestiere lo sviluppo demografico sul prossimo decennio (e fingendo di dimenticare che il piano ha una validità limitata a un quinquennio) il Comune ha dato il via libera a una ennesima, impressionante quantità di piani di recupero il cui effetto primario, nella migliore delle ipotesi, sarà quello di cancellare quel poco di verde che ci rimane.
La peggiore (delle ipotesi) è invece quella che, alla fine, tutto questo influisca non solo sull'estetica del paesaggio ma anche sulla tenuta delle nostre montagne, dei nostri corsi d'acqua, e di falde per le quali il cemento agisce di solito come il fuoco per la benzina. Non solo.
Grandi quartieri del capoluogo, complice una crisi del mercato immobiliare di cui al momento non si vede la fine, sperimentano già oggi una convivenza alienante con bifamiliari pastello invariabilmente invendute e palazzine fantasma che ricordano la periferia di Praga nei dorati anni '50 del socialismo reale. Chi ci andrà ad abitare? Non occorrono esperti di sociologia urbana per indovinare che intere fette di città prima o poi finiranno svendute a un progetto fatale di ghettizzazione, unico plausibile approdo di un percorso sul quale non veglia nessuno. E dire che l'urbanistica oltre a essere la fotografia del presente, dovrebbe in qualche modo essere anche visione del futuro.
Non si tratta di dare contro all'edilizia, un settore che a queste latitudini dà lavoro a una impressionante molteplicità di persone, ma di valutare seriamente gli effetti deleteri di una pianificazione inesistente, di questo eterno procedere a tentoni, generalmente calibrato sulla sola possibilità di incassare qualche onere di urbanizzazione.
Così, a costo di apparire banali, vale allora la pena di riscrivere - sì, per l'ennesima volta - che non è questo il modo di governare, non è così che si garantisce il domani. Altrimenti, alla fine, avranno avuto ragione i Maya. Se andrà bene ci cadranno in testa le montagne, se andrà male ci scanneremo all'arma bianca per difendere il nostro fazzoletto di verde, ma in ogni caso sarà davvero l'apocalisse.
Stefano Ferrari
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