Prescindendo dal merito della questione, vorrei far notare che la ventilata abolizione dell’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro rivelano alcune caratteristiche importanti dell’indirizzo politico e dello stile di governo di Matteo Renzi.
Il primo elemento consiste nell’adesione del premier al credo liberista, trionfante in Europa e nel mondo, che prescrive l’eliminazione di ogni ostacolo all’egemonia assoluta delle imprese, alla loro libertà di assumere e di licenziare, e contemporaneamente il ridimensionamento, altrettanto radicale, della funzione e della rilevanza sociale delle organizzazioni dei lavoratori, dei sindacati e della magistratura del lavoro, visti tutti come ostacoli inutili e dannosi alla produttività e alla libertà di intrapresa.
I vantaggi che dalla riforma verrebbero ai precari, ai co.co.co., ai co.co.pro. e a tutti i lavoratori non a tempo indeterminato sono avvolti nella nebbia più fitta e del tutto imprecisati. In compenso, il premier si mostra fermamente convinto che, eliminando progressivamente gli anacronistici (per lui) lacci e laccioli giuridici imposti alle imprese capitalistiche negli anni Sessanta e Settanta, il mercato del lavoro sarebbe messo in condizione di sprigionare nuove energie, il numero di disoccupati si ridurrebbe .
In altri termini, la tesi implicita del premier è che, in un’economia globalizzata che sopprime i diritti dei lavoratori, chi insiste nel mantenere la vecchia legislazione più favorevole al lavoro organizzato rischia di rimanere indietro.
Non si tratta certo di una tesi originale. E’ la ricetta introdotta dalla signora Thatcher alla fine degli anni Settanta, divenuta progressivamente, negli ultimi decenni, “pensiero unico” nelle cancellerie europee, negli uffici delle banche centrali, ma anche nelle redazioni dei giornali e in molte università, in tutti i luoghi che contano, in Europa e nel mondo. E’ la terapia caldamente “raccomandata”, per usare un eufemismo, all’Italia, ma anche alla Francia del socialista Hollande e a tutti gli altri paesi dell’Ue dalle autorità politiche e monetarie europee. Al pari della riforma istituzionale, è un progetto molto berlusconiano. Eppure, e qui veniamo al secondo elemento della strategia renziana, il premier, pensando di ricavarne un grosso vantaggio personale, cerca di presentare questa decisione non per quello che è, e cioè l’adeguamento forzato al conformismo liberista dominante, ma come una decisione che solo la sua presenza al vertice del governo ha reso possibile, l’ennesima mossa per liberare il Paese dal vecchiume di un inglorioso passato e lanciarlo verso un futuro di radiose speranze. Questo artificio furbo permette di prendere due piccioni con una fava: cioè spinge ulteriormente il nostro Paese in direzione liberista e insieme serve a dare a tutta l’Italia l’impressione di aver trovato finalmente il suo padrone, il sovrano che da tempo attendeva, colui che, domandola e dominandola, condurrà la patria nel paradiso della postmodernità globalizzata e postideologica. Più prosaicamente, lo stratagemma comunicativo serve a Renzi, ad un tempo, ad assecondare le minacciose richieste dell’Europa e insieme a raggiungere l’apice della potenza domestica, a concentrare nelle sue mani il massimo del potere. Un nuovo miracolo italiano in salsa fiorentina.
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