Le nostre nonne ci hanno insegnato una preghiera da fare al mattino, quando si comincia la giornata, che dice così: «…Ti ringrazio, Dio, di avermi creato e fatto cristiano…». «Fatto cristiano»: c’è una fierezza in queste parole. Attenzione, però: una fierezza umile, nulla da spartire con l’orgoglio, la tracotanza o la superbia. È una fierezza che subito ci mette addosso il grembiule del servizio, e ci fa togliere i calzari davanti alla terra sacra dell’altro. E tuttavia di una vera fierezza si tratta: poter professare il nome cristiano, e andare a testa alta, senza vergogna, per le vie del mondo. Ebbene, se ogni mattino possiamo pregare così, con questa fierezza, lo dobbiamo anche a san Giovanni Paolo II, di cui ricorre il 18 maggio il centenario della nascita.
Lo sintetizzò bene nell’omelia funebre dell’8 aprile 2005 colui che sarebbe poi diventato il suo successore: «Giovanni Paolo II ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo…Ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile».
Quale tendenza? Quella che, sul finire degli anni ’70, profetizzava i titoli di coda per la Chiesa cattolica (anzi, per la religione in quanto tale) nel mondo moderno. A Est, oltre la «cortina di ferro», la Chiesa si trovava perseguitata e chiusa all’angolo dalla disumana dittatura comunista. A Ovest, nel cosiddetto mondo libero, la Chiesa viveva una condizione di subalternità, se non di diaspora, sotto l’incalzare della secolarizzazione. Sembrava al canto del cigno. I cambiamenti sociali, lo sviluppo tecnologico, l’autonomia della politica, la società aperta, la locomotiva del progresso economico, la civiltà del benessere e dell’opulenza: tutti fattori che sembravano consegnare alla Chiesa un destino di marginalità e di irrilevanza. Diventata ormai inutile, più che dannosa. Da guardare con indifferenza, più che con fastidio o acrimonia.
Ma ecco, nel conclave del 1978, soffiare un Vento impetuoso proprio da est. Da un popolo tradizionalmente ultra-cattolico, ma proprio per questo aperto all’universale Dio trasse un nuovo Mosè per i tempi moderni. Che avrebbe preso per mano una Chiesa impaurita e incerta, stranita e spaesata nel mare burrascoso della dittatura comunista e della modernità laica, e l’avrebbe traghettata nel nuovo millennio. Giovanni Paolo II ha ridato dignità e cittadinanza alla Chiesa cattolica nei mondi della politica, dell’economia, della cultura umanistica, della ricerca scientifica. Ne ha assestato la dottrina, dopo il grande ringiovanimento del Concilio Vaticano II, facendo leva sull’acume teologico del cardinale Joseph Ratzinger. Ha rimesso al centro la questione dell’uomo, messa a repentaglio dalle vertiginose accelerazioni della modernità . Facendo perno sulla madrepatria polacca, ha assestato una spallata decisiva al Muro di Berlino, senza peraltro lesinare critiche al materialismo pratico dell’Occidente. Ha richiamato con forza l’Europa alle sue radici spirituali e al suo compito culturale, e con innumerevoli viaggi apostolici ha ridato fiato alla missione della Chiesa, facendosi voce del Sud depredato e dimenticato del mondo.
Ma un fatto, forse più di molti altri, raffigura bene questo sussulto di veemenza e di vitalità della Chiesa di Wojtyla: il ritrovato rapporto con i giovani. Sulle GMG si potranno dire tante cose, anche giustamente critiche (spettacolarismo, emozionalismo, retorica giovanilista…), ma resta il fatto che questo «Papa Nonno» ha saputo veramente bucare la cappa di afasia e di apatia di una generazione di «senza padri». E commuove ancora ripensare ai Papa-Boys che, a migliaia, si misero in viaggio per il suo funerale; o che in piazza San Pietro intonavano il coretto ritmato «Giovan-nipaolo!» mentre negli appartamenti apostolici si consumavano gli ultimi istanti della sua agonia.
E l’elenco delle riscosse cattoliche potrebbe continuare a lungo. L’incontro di tutte le religioni mondiali ad Assisi, nel 1986, non fu, come lo stesso Ratzinger temeva potesse essere interpretato, una concessione al relativismo e al sincretismo religioso, bensì la rappresentazione visiva di una leadership spirituale mondiale del Papa di Roma.. La «purificazione della memoria» del Giubileo del 2000, con le reiterate richieste di perdono, non furono atti di debolezza, ma al contrario la testimonianza di una identità cristiana talmente granitica e cristallina da non temere il confronto sincero con i panni sporchi della propria bi-millenaria storia. Siamo onesti: non si era mai visto niente di simile.
Insomma, san Giovanni Paolo II fu una figura gigantesca. Che ha sigillato il suo apostolato con la testimonianza del dolore e della sofferenza, dai giorni dell’attentato fino al lungo calvario della malattia (lui, che era stato così un «bell’uomo», sportivo e aitante). Fino a rendersi fratello di tutti i poveri, i malati e gli anziani del mondo. Naturalmente avrà pure fatto i suoi errori, e, come figlio d’uomo, avrà avuto i suoi difetti. E’ così di ogni santo. Per esempio nel campo della ricerca teologica, il pur necessario giro di vite dottrinale, dopo le allegre scorribande del post-concilio, può qua e là aver calcato troppo la mano. Ma resta il fatto che, con san Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica ha potuto rialzare la testa. Un po’ come accade anche oggi, grazie a papa Francesco, e su altri aspetti complementari a quelli dell’era Wojtyla (perché nel frattempo la storia è andata avanti). Così non solo al mattino, ma anche alla sera, quando si va a dormire, la preghiera della nonna può continuare con fierezza a ripetere: «Ti ringrazio di avermi fatto cristiano».
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