Il pasto nudo
della Ca’ d’Industria

Pensatevi seduti al tavolo di un ristorante. Il cameriere si avvicina e anziché prendere l’ordinazione vi presenta il salatissimo conto per un pasto mai consumato. Moltiplicate la scena per decine di migliaia di volte, e avrete la misura di quello che è accaduto nella Ca’ d’Industria.

La casa di riposo dei comaschi, una risorsa pubblica preziosa per il territorio, ha rischiato di vacillare sotto il peso di un appalto bollato dai giudici come «illegittimo» e «sfavorevole», al punto da costringere la Fondazione che la gestisce a sborsare centinaia di migliaia di euro per pasti mai consegnati. Quattro anni fa gli allora amministratori nominati dal Comune, dalla Regione e dalla Provincia alla guida della Fondazione Ca’ d’Industria hanno dato l’ok a un appalto che ha rischiato di trascinare la casa di riposo in un “rosso” senza fine. Un appalto bocciato a più riprese da più giudici e sul quale, ora, si aprirà anche un processo penale.

Ieri la giustizia amministrativa ha definitivamente respinto i ricorsi di Fms, ovvero la società privata vincitrice di un appalto che - tra le clausole - prevedeva un numero minimo di pasti garantiti. Tradotto: il privato poteva fatturare e incassare soldi pubblici anche per pasti non consegnati. E infatti in soli 13 mesi la Ca’ d’Industria - una realtà non solo a guida pubblica, ma che riceve anche un finanziamento da parte del Comune e le cui attività sono finalizzate «alla soddisfazione di esigenze di interesse generale di assistenza a soggetti disagiati» - si è ritrovata a sborsare 2 milioni 245mila euro, quando il conto per i pasti effettivamente consegnati si fermava a 1 milione e 767mila euro.

L’allora Cda e l’allora amministrazione comunale, guidata da Stefano Bruni, avevano difeso a spada tratta quell’appalto. Di fronte alle proteste dei dipendenti e alle critiche delle minoranze molti di loro avevano parlato di complotti, di attacchi pretestuosi, addirittura di sabotaggi studiati a tavolino per danneggiare l’immagine non solo degli amministratori della Fondazione ma della stessa società privata vincitrice dell’appalto. Appalto che - almeno stando ai calcoli della Procura, che formalizzerà le sue accuse in un processo che si aprirà tra un mese e mezzo - ha finito per premiare una società che aveva presentato un’offerta economica decisamente superiore a quella dei concorrenti, al punto da spingere l’accusa a far lievitare il peculato contestato a 877mila euro in soli tredici mesi di servizio.

Ci sono volute denunce, inchieste giornalistiche e inchieste giudiziarie per arrivare - quattro anni più tardi - a una prima sentenza “definitiva”: quelle spese in più sostenute dalla Ca’ d’Industria erano non giustificate e, di fatto, illegittime. Chi ha deciso, consigliato, gestito, perseverato allora in una scelta che l’attuale presidente della Fondazione è certo avrebbe potuto comportare la morte della stessa casa di riposo comasca ha agito senza pensare «all’interesse pubblico». Superficialità o peggio? Sarà la magistratura penale a stabilirlo. Di sicuro la vicenda Ca’ d’Industria mostra il doppio volto tipico di questa Italia: da un lato la classica gestione della cosa pubblica viziata da errori e troppo “leggera”; dall’altro l’esistenza di anticorpi capaci di intervenire in tempo e scongiurare, come nel nostro caso, la fine di una realtà preziosissima per Como qual è la sua casa di riposo. Per chi vede il bicchiere mezzo pieno, comunque un segnale di speranza. Per gli altri non resta che pretendere da tutti più cura della cosa pubblica. Anche da noi stessi.

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