La politica è una questione di forza. Le chiacchiere in questo contesto servono a poco. Quelle vanno bene per giornali e televisioni, che da due mesi ci ammorbano con uno straparlìo in servizio permanente effettivo dal quale non si è cavato un ragno dal buco e nel quale ognuno dei cervelloni della comunicazione ha bellamente confuso le sue fanfaluche con la realtà effettuale. Poi, però, quando arriva la resa dei conti, si capisce in un attimo chi possiede almeno un po’ di buonsenso e chi non ci capisce scientificamente una mazza.
Oggi è fin troppo facile ironizzare sulla clamorosa figura di palta rimediata dal leader dei 5 Stelle in questi giorni di consultazioni per il nuovo governo, visto che è riuscito nell’impresa di valore europeo di non mettere a reddito in alcun modo il patrimonio oggettivamente clamoroso del 32% ereditato dalle elezioni. E quanto le reazioni dell’ultima ora, tra l’isterico e il melodrammatico in stile Buffon dopo la partita di Madrid, tanto per intenderci, e il riemergere delle minacciose adunate piazzaiole antisistema siano la conferma della presa di coscienza che il giocattolo è andato in pezzi e che Di Maio non andrà mai a Palazzo Chigi. E che forse - se si interpreta maliziosamente l’ultima, imprevista intemerata contro l’euro di Grillo - la sua stagione sia già al tramonto perché un altro leader, il vero idolo delle folle grilline, è già pronto a rientrare dal buen retiro terzomondista.
Ma il vero tema non è questo. Il punto dirimente è quanto sia esiziale, in politica così come nella vita, non capire il vero valore degli avversari, la loro vera forza, il loro vero potere e confondere così le proprie aspirazioni, le proprie aspettative, i propri sogni con il principio di realtà. E se è così, allora il deficit di cultura politica del giovane politico campano - furbo e sveglissimo, quanto supponente e incolto (ricorda qualcuno?) - è aver creduto che Renzi e Berlusconi fossero finiti. Sorpassati. Cotti. Bolliti. E che bastasse mettere un veto imperativo ai rispettivi blocchi di centrosinistra e centrodestra - facciamo l’accordo con gli uni o con gli altri, e già questa è una roba allucinante, basta che voi li emarginiate - e i due sconfitti delle elezioni del 4 marzo sarebbero stati scaricati e messi da parte. Consentendo così il trionfale ingresso dei 5 Stelle al governo, accompagnati dai portatori d’acqua Salvini o Martina. Tutto semplice, nel rutilante mondo dei balocchi dello statista Di Maio, vero?
E invece, guarda un po’ cosa è successo. Mesi di interviste, appelli, talk show, dibattiti programmatici eccetera eccetera con pseudo leader e pseudo leaderini delle mille correnti del Pd e affini e tutti che si addormentano sul divano o si mettono le dita nel naso o tirano lo sciacquone o guardano i trentaduesimi di finale di Mitropa Cup. Poi, Renzi fa un comparsata da Fazio e viene giù tutto. Con tanto di tumulazione subitanea dell’accordo con i 5 Stelle e resa incondizionata dei cosiddetti cospiratori durante la direzione nazionale. Ora, questo cosa vuol dire? Vuol dire che lì dentro è Renzi che comanda e che gli altri non esistono. Punto. Non c’è altra leadership, non c’è altro potere, non c’è altra cultura o linea alternativa in grado di emergere. Non c’è niente. Solo della gran fuffa, del gran velleitarismo, del gran tramare e brigare e mestare, del gran parlarsi addosso pur contando come il due di picche, un gran agitarsi di mezze figure alle quali solo i giornali - infatuati dell’ipotesi di accordo tra Pd e 5 Stelle che gemmava solo dalle loro menti bacate - potevano dar credito. Perché non c’è nessuno, ad oggi, in grado di mandare in pensione Renzi.
E, attenzione, questo non ha nulla a che fare con la bontà o meno delle sue politiche, con l’acume o meno della sua linea. Questo è un altro discorso, sul quale ognuno può pensarla come crede. Qui si parla solo della crudezza e della ferocia della realtà. E su quanto sia ridicolo, anzi, patetico, piagnucolare sul cattivone che non vuole farsi da parte nonostante le ripetute sconfitte, senza avere la forza di farlo fuori. E’ questo il punto. Non ci sono altri modi per far emergere le nuove leadership. Bisogna uccidere il padre. Destituire il comandante. Ghigliottinare il re. Come fece Craxi al Midas con De Martino, D’Alema con Occhetto, Berlusconi con i resti del pentapartito, Salvini con Bossi e come accade ovunque e da sempre da quando esistono il mondo e la politica. Nessuno va a casa da solo. Nessuno molla la poltrona. Nessuno. Da lì va schiodato con la forza e decapitato con tutti i suoi capibastone. Altro che i piagnistei sull’etica che non c’è più.
Ed è la stessa sottovalutazione della parte in commedia di Berlusconi. Come se un soggetto straordinario – nel senso etimologico del termine - come quello potesse essere spedito ai giardinetti dal primo ragazzotto che passa o anche dal primo dei suoi alleati, che infatti al di là delle chiacchiere da elemosinare a noi scriba con la bavetta alla bocca su fantomatiche rotture dell’asse di centrodestra si è ben guardato dal mollare il leader di Forza Italia.
Sappiamo bene che fine hanno fatto tutti i numeri due che hanno tentato il golpe, sappiamo bene quanto sia intelligente, astuto, cinico, spregiudicato, pragmatico e feroce nella gestione del potere - non si diventa quello che è diventato, piaccia o non piaccia, senza tutte queste qualità -, sappiamo bene quanto venderà cara la pelle prima di rassegnarsi al mero ruolo di padre nobile di Salvini. Che infatti lo teme. E fa bene a temerlo.
Nessuno sa quello che potrà succedere da lunedì in poi. Di certo c’è solo il gran caos degli elementi, lo spettacolo penoso di una classe dirigente tanto ampollosa quanto mai così poco all’altezza del suo ruolo e, soprattutto, l’eclissi della politica, grazie alla quale, mentre risibili ragazzotti si atteggiano a nuovi Cromwell, i poteri forti, quelli veri, fanno e disfano quello che vogliono, nella nostra spassosa repubblica delle banane.
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