In attesa della delicata Direzione del Pd in cui ci sarà il primo vero faccia a faccia con Matteo Renzi, Enrico Letta delimita il perimetro d’azione del governo. L’attuale maggioranza, fa sapere, non ha alternative, nemmeno il voto anticipato. Un fallimento delle larghe intese, secondo il premier, travolgerebbe tutti, lasciando campo libero all’ antipolitica.
E’ un ragionamento che si muove nella stessa lunghezza d’onda di quello di Giorgio Napolitano: sembra che una parte del Pd si sia dimenticato delle difficoltà economiche e di un sistema politico inceppato che non riesce a produrre decisioni. In questa situazione, puntare sul ritorno alle urne, per di più con il famigerato Porcellum, per Letta sarebbe un errore fatale. Tuttavia la linea del premier deve fare i conti con un fatto banale ma decisivo: il programma è ancora quasi tutto da realizzare. L’Italia sta vivendo un problema strutturale sulla crescita e non può permettersi di derogare dalla politica del rigore. Per rimettere in moto la macchina occorre aggredire lo stock del debito pubblico con un grande programma di dismissioni (in modo da finanziare il taglio delle tasse) e varare il piano “Destinazione Italia” che dovrebbe attrarre nuovi investimenti nel nostro Paese. In altre parole serve tempo. Il “decreto del fare’’ è solo il primo passo di un percorso che Letta proietta sui 18 mesi del suo discorso d’insediamento. Naturalmente ciò significa ridurre gli spazi di manovra di Matteo Renzi. Se fosse eletto segretario, il sindaco rottamatore si troverebbe in qualche modo la via già tracciata.
Renzi è in silenzio stampa. Non vuole fornire appigli agli avversari interni. Ma i suoi premono perchè la Direzione democratica stabilisca intanto la data del congresso. L’obiettivo è chiaro: impedire che la maggioranza interna del Pd (radunata attorno a Bersani, Franceschini e Letta con D’Alema in posizione d’attesa) possa guadagnare tempo alla ricerca di un forte candidato alternativo.
Il problema è comunque complesso: anche da segretario, il sindaco di Firenze avrebbe qualche difficoltà a scindere le sorti del partito dalla Grande Coalizione nata sotto l’ombrello politico del Colle. Tutto si svolge peraltro in un clima sospeso, in attesa della sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi. Questo sarà il vero punto di svolta. Dal presidente della Repubblica al presidente del Senato e alle segreterie dei partiti, si sono sprecati gli appelli a tenere distinti i due piani in un momento in cui una crisi potrebbe far precipitare il Paese nel caos.
Beppe Grillo tenta di sfruttare l’occasione di rimettere in gioco il suo movimento: denuncia il “colpo di Stato d’agosto’’ che sarebbe stato ideato dalla maggioranza con l’aiuto della commissione dei Saggi per espropriare il Parlamento delle sue prerogative, spinge i suoi al filibustering sul “decreto del fare’’, spera nel ritorno al voto per tentare la spallata definitiva al sistema dei partiti. Ma i suoi in questa battaglia incorrono anche in qualche infortunio: è il caso del deputato Mimmo Pisano, pubblicamente sconfessato per aver presentato e fatto approvare un emendamento al “dl fare’’ che avrebbe richiesto un mucchio di nuove scartoffie alle piccole imprese (il Durt). L’emendamento sarà cancellato in Senato ma intanto il danno d’immagine è stato fatto.
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