Nonostante le ottimistiche previsioni di sondaggisti e allibratori, l’impegno per il “Remain” di buona parte della classe politica, la discesa in campo di quasi tutto l’establishment e il martirio della deputata laburista Jo Cox, quel che tanti temevano è successo: dopo 43 anni, gli inglesi hanno deciso di lasciare l’Unione Europea. E’ stata una vittoria del voto di pancia sul voto di testa, degli anziani sui giovani, della provincia contro Londra (e la Scozia), dei nostalgici di una antica insularità su chi ha accettato il globalismo, e se vogliamo anche degli indigenti sui benestanti.
La campagna elettorale dei due blocchi è stata basata, più che su argomenti costruttivi, sulle reciproche paure, usando spesso anche argomenti e cifre non veritieri. I favorevoli al Brexit hanno evocato il pericolo di una sempre più massiccia immigrazione (perfino dalla Turchia che pure non fa, e difficilmente farà mai, parte della UE), di una possibile bancarotta dei servizi sociali e di una sempre maggiore influenza dei burocrati di Bruxelles che avrebbe finito con il privare il Regno Unito della sua sovranità. I contrari hanno agitato lo spettro di una immediata crisi finanziaria e valutaria, della perdita di un milione di posti di lavoro, della riduzione del PIL del 3,5% e del potere di acquisto di ogni famiglia di 6.000 Euro entro cinque anni, di una caduta del valore degli immobili.
La crisi valutaria e finanziaria si è immediatamente materializzata (per la verità con più violenza sul continente che nella City), anche se, nell’immediato non cambia nulla. Prima che il Brexit diventi operativo, è infatti necessario che, dopo un voto del Parlamento, il governo Cameron invochi l’articolo 50 del Trattato di Lisbona e metta così in moto il negoziato per l’uscita del Paese dall’Unione. Visto che il premier ha annunciato le sue dimissioni per ottobre, è probabile che, nonostante la forte e quasi unanime insistenza di Bruxelles a fare presto, questo non avvenga per un paio di mesi, cioè fino a quando la Gran Bretagna non si sarà scelta un nuovo premier. La loro durata è prevista in due anni, anche se la loro estrema complessità, e gli inevitabili litigi, potrebbero costringere a un prolungamento. Nel frattempo, Londra rimarrà a pieno titolo nell’Unione, non potrà prendere iniziative autonome contro l’immigrazione e naturalmente non potrà neppure godere delle concessioni che Cameron aveva strappato nella speranza che lo aiutassero a vincere il referendum. Neanche lo status delle centinaia di migliaia di italiani che vivono nel Regno Unito cambia, per cui ogni loro decisione è prematura.
Come la trattativa si evolverà, dipende da vari fattori: la identità del nuovo premier (Boris Johnson più duro, l’altra candidata Theresa May più accomodante), la volontà dell’Unione di far pagare un prezzo a Londra, la reciproca convenienza a mantenere in piedi alcuni accordi, secondo le formule adottate per Norvegia e Svizzera. Durante il negoziato, l’Europa vivrà in una specie di limbo e – in assenza di precedenti – si muoverà su terreno sconosciuto. Le prime dichiarazioni delle parti variano dal duro al conciliante, ma è ovvio che si punterà a limitare i danni. Comunque, è opportuno prendere atto di quello che ormai è irreversibile: con l’uscita della Gran Bretagna, l’Europa sarà privata di quasi metà del suo già scarso potenziale militare; Londra rischia di perdere sia la Scozia filoeuropea, che ha già preannunciato un nuovo referendum, sia l’Ulster tentato da una riunificazione con il resto dell’Irlanda; la City, indiscussa capitale finanziaria d’Europa, sarà ridimensionata; la UE sarà orfana del suo membro più liberale, che spesso faceva da contrappeso alle tendenze dirigiste della sua burocrazia; gli arrembanti partiti euroscettici e populisti di tutto il continente prenderanno spunto dal Brexit per avanzare nuove richieste; altri Paesi potrebbero essere tentati, se non di uscire, almeno di strappare eccezioni simili a quelli di cui godeva Londra. L’unica auspicabile, ma solo ipotetica, contropartita sarebbe che l’Unione impari la lezione e intraprenda finalmente le riforme necessarie per renderla nello stesso tempo più efficiente e più attraente. Altrimenti, il 23 giugno 2016 passerà alla storia come un giorno buio, in cui l’Europa ha fatto un passo indietro di mezzo secolo.
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